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VIGNAROLO. Ed io col medesimo effetto vi bacio molto amorevolmente. Ma come vi chiamate? ARPIONE. Non vi ricordate di Arpione che vi era tanto caro? VIGNAROLO. bene, or me ne ricordo, Arpione mio caro. ARPIONE. Ringrazio la fortuna del mare che ne fe' grazia di rivederci. VIGNAROLO. Come state? ARPIONE. Sète forse divenuto medico, che mi dimandate come stia?

NARTICOFORO. Ed io ancora mi penso saperlo quam optume. PANURGO. Dunque, se lo sapete, perché me lo dimandate? GERASTO. Lo dimando per sapere se sei me. NARTICOFORO. Ed io ancora flagito, posco, peto, rogo saper se sei me. PANURGO. Con una risposta sodisfarò ad ambiduo. Io essendo me, non posso essere te lui. GERASTO. La differenza che avemo fra noi, è se siate me o lui.

Allora a lui si para innanzi l'arcivescovo di Salerno, Alfano, e dice: Ed a me, monsignore, a me non dimandate voi perdono dell'avermi detto mentitore? A voi, messer arcivescovo, che ardiste dare del pazzo a nostra sorella, fiero risponde Gisulfo, a voi non solo non dimandiamo scusa, ma aggiungiamo che siete uno scimunito ubriaco.

GIULIO. Rispondete al saluto prima e dite: Dio vi aiuti e salvi! e poi mi dimandate d'Olimpia. LAMPRIDIO. Come può mandarvi salute chi è privo d'ogni salute? GIULIO. Or dite come stiate. LAMPRIDIO. Dillomi tu, fratello, com'io stia, che lo sai meglio di me. GIULIO. Come?

LIMOFORO. Ecco che mentre piú ti raffiguro, ti vedo nel fronte il segno di quella ferita che ti fe' Cleria mia moglie, quando ti cadde Aurelia di braccio. Ma dimmi, nuovo Limoforo, come si chiamava il marito di Lima? PSEUDONIMO. Che imperio avete sopra di me, che sia costretto a rispondere a quanto mi dimandate? Non me ne ricordo.

Monsignore, voi mi dimandate il vostro cappello di cardinale. Io ve lo rifiuto. Grazie dell'infame tentazione. Se io dovessi giammai divenire un Giuda, io non farei mai come quel povero calunniato di Galilea cui dicon venduto per trenta denari. Don Diego, partì senza salutare. Entrando in casa, egli era stravolto. Cadde affranto sur una sedia, la testa piegata sul petto, le braccia penzoloni.

PIRINO. Te ne prego e straprego. PANFAGO. Or che dici bene, perché lo schiavo deve pregar il padrone. PIRINO. Ecco la casa. Chi dimandate? PANFAGO. Sète voi Mangone? MANGONE. Io son mentre Iddio vòle. PANFAGO. Voi siate il ben trovato per mille volte, padron caro; perdonatemi se, non conoscendovi, primo non vi ho salutato.

SQUADRA. A tempo vi veggio, Sennia. SENNIA. M'indovino la nuova. SQUADRA. Voi dovete saper che voglia. SENNIA. Che si mariti mia figlia questa sera col capitano. SQUADRA. Tutto il contrario: a rinunziarla e sciorsi dalla promessa. SENNIA. Come questo? SQUADRA. Me ne dimandate ancora? non si sa per tutto Napoli che un romano sotto nome d'esser vostro figlio s'ha goduta vostra figlia?

GUGLIELMO. A me ne dimandate? PANDOLFO. A chi vuoi che ne dimandi? GUGLIELMO. Che argento dite voi? PANDOLFO. Che ti ha consegnato l'astrologo dopo che fosti trasformato. GUGLIELMO. Che astrologo, che trasformazione? PANDOLFO. Or questo è un altro diavolo, duomila scudi d'argento: sarebbe cosa da farmi arrabbiare! CRICCA. Ah, ah, ah! mirate che ride! vuol scherzare con voi il traditore.

E voi, ambasciatore di una grande potenza, dimandate ad una povera creatura di provincia una formola di corte per compiere un atto di alta gravit