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ESSANDRO. Bisogna che sia ribaldo da dovere PANURGO. Egli è ribaldo, arciribaldo, re di ribaldi e mille volte peggio di quel che vogliamo; bisogna che molto l'ammaestriamo, ché appena accennandogli il principio, capisce il negozio e compone di testa. ESSANDRO. O Dio, che quanto piú mi volgo questo inganno per l'animo, piú mi riesce a proposito! Dove arremo vesti orrevoli per vestir Narticoforo?

PANURGO. Io che ho caro che la cosa rieschi netta, vo prevedendo tutte le cose che ne ponno fare errare. MORFEO. Taci e poniti in postura, la porta s'apre, eccolo. Al viso conosco che è terra da piantarvi carote, la preda sará nostra, l'incapparemo al primo. GERASTO. O Narticoforo carissimo, voi siate il ben venuto per mille volte! PANURGO. O Geraste, lepidum caput, voi siate il ben trovato!

ESSANDRO. Vien qua tu: conosci costui chi sia? GRANCHIO. Nol conosco il viddi pur una volta. ESSANDRO. Se non mi dici chi sei, ti passerò questa spada per i fianchi. NARTICOFORO. Saltem, annunciatemi, in che v'ha egli offeso? ESSANDRO. Non si vergogna questo pedante pedantissimo, feccia di pedanti, voler fare una mia cugina per moglie al suo figliuolo.

NARTICOFORO. Ben, come si sta galante uomo? PANURGO. Si sta in piedi. NARTICOFORO. Sei o non sei tu? sei uno o sei alcuno? PANURGO. Io non son io mi curo esser io, vorrei che alcuno fusse me. GERASTO. Mira che faccia di avorio! mira che volto! PANURGO. Mi par che con questo volto possa star dinanzi ad ogni grande uomo.

PANURGO. Che dunque vorresti, ch'io non fusse niuno? NARTICOFORO. Anzi, che non foste ad un tratto tre. PANURGO. Orsú, fatevi tre pezzi di me, e ognuno si pigli la parte sua. PELAMATTI. Tanto sará l'andar cercando questi per Napoli? FACIO. «Come Maria per Ravenna». Ma tu chi miri? PELAMATTI. Facio, colui che ragiona con quei vecchi, mi par colui che mi tolse le vesti.

GERASTO. Ho maritata la tua padroncina. ESSANDRO. Con chi? GERASTO. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo. ESSANDRO. Chi è questo giovane cosí aventuroso? GERASTO. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d'accordo della dote e d'ogni cosa. ESSANDRO. Come non n'avete fatto parola mai?

NEPITA. Eccovela. NARTICOFORO. Ah, pedissequa, ancillula, scortulo, meretricula, che m'hai ottenebrati gli oculi con questa tua farina. Proh Iupiter, che l'avesse nelle mani per dilaniarla in mille frustuli! GRANCHIO. Ecco, trovate vere le mie parole. Quanto era meglio credere e non voler provare. Ella è dentro, e noi, come quelli che non entrano mai, siamo restati fuora.

MORFEO. A sbo... sbu... sbosar la figlia di questo me... men... medico. NARTICOFORO. Di quanto hai detto, tu menti del tutto. MORFEO. Sbu, sbu. NARTICOFORO. Oimè, che putore! che cosa è questo che m'hai buttato in faccia? MORFEO. È ro... rotta la postema: è lo san... sangue e la mar... marcia. NARTICOFORO. Oimè, che fetulenzia, che cloaca è questa! MORFEO. Ti giuro...

NARTICOFORO. E si scrive con «ae» diftongo, e vien da «schima» che si scrive con «ita». NEPITA. Voi dovete essere spiritato, che parlate in tanti linguaggi; ma io perdo qui il tempo, ché non avete altro che parole. GRANCHIO. Abbiam fatti per te.

NARTICOFORO. Vuoi tu un buon consiglio? scostati da quella porta, perché ti appestará. Gerasto. Vuoi tu un miglior consiglio? non trattar di quello che non sai, altramente sarai giudicato di poco consiglio e di manco cervello.