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PANURGO. Il parentado è cosí buono ch'io nol merito, la dote posso facilmente pagarla e giá i dinari erano in banco. NARTICOFORO. Non potrei io entrar in casa e veder questa vostra figlia cosí abrosa?

Ma perché non debbo io piangere? che consolazione arò piú in questa vita? deh, perché non la lascio? perché non m'uccido per disperato? PANURGO. Padrone, ricordatevi che la disperazione è ruina delle speranze; e il ricorrere che si fa piú tosto alle lacrime che a' rimedi, è di persona vile e che non vuole che i desidèri si conduchino a fine.

FACIO. Ho buona relazion di voi, vorrei servirmi di voi per avocato.... FACIO....Voi dunque sète Facio? PANURGO. Io son Facio, vi dico; ma, di grazia, parlate piú basso. FACIO. Ch'io parli basso? parlerò tanto alto che m'oda tutto lo mondo. Menti che tu sii Facio, che Facio son io, e tu col farti me, mi togliesti le vesti mie. PANURGO. Saran vostre, se me le pagherete; e voi pigliate errore.

PANURGO. Faremo che Cleria non si contenti. ESSANDRO. Cleria è timida, rispettosa; non ardirá questo. PANURGO. Mancherá di trovar il pelo all'uovo? Ho detto il disegno cosí in grosso, poi tanto voltaremo di qua e di e l'anderemo polendo e accommodando, che stii a modo nostro.

ESSANDRO. Se ben Gerasto non è degli accorti uomini di questa terra, pure con questo inganno ingarbugliaremmo altro cervello che il suo. Ma chi sará costui che saprá fingere Nartícoforo, e Cintio quel giovane cosí storpiato? PANURGO. Stimate voi che disponendomi io a questo, non sappi fingere Narticoforo, quel maestro di scuola?

GERASTO. Tutte queste rozze che si prestano a vettura, sono cosí stracche e piene di guidaleschi che ti cascano sotto dieci volte per ora. Che farem dunque di questo matrimonio? PANURGO. Carissime germane, poiché per reiterate epistole trattammo questo matrimonio, venuti ad summum conclusionis, gli venne questa egritudine. GERASTO. Non me ne potevate avisar prima che tòrvi questo travaglio?

GERASTO. Signor Narticoforo, oh come vi veggio volentieri! NARTICOFORO. Signor Gerasto, oh come opportune advenis! Voi siate gli ben trovati! GERASTO. Signor Narticoforo, di grazia, dite, chi sète voi? NARTICOFORO. Signor Gerasto, di grazia, dite, chi sète voi? PANURGO. Desidererei saper ben prima da voi: sapete chi sia io? GERASTO. Io lo so bene.

PANURGO. Almeno non será men bugiarda a te che ad altri. ESSANDRO. Ma dimmi, di grazia, che pensi fare? PANURGO. Prima diremo cosí.... Ma questo non è piú bono, bisogna pensar un'altra cosa. Faremo cosí.... questo va a proposito, perché potremo incorrere in cosa peggiore. ESSANDRO. Parla presto.

PANURGO. M'hai servito da vero e meriti la mancia! TOFANO. Mi volete dar la mancia che m'avete promesso, se vi avessi...? PANURGO. Meritaresti un capestro che t'appiccasse, come non ti mancherá! TOFANO. Vi ringrazio della mancia e della buona volontá. PANURGO. La volontá è conforme al tuo merito. TOFANO. Vi lascio. PANURGO. Vattene col diavolo!

ALESSIO. Per Tofano, mio servidore, che vi conosce; o ne cercará altre in presto. Attendete all'altre cose da farsi, che subito partito mio padre, le manderò; sol fate che non vi abbi a cercare. PANURGO. Io abito qui presso: fate solo che compaia qui, che sará veduto. ALESSIO. Cosí farassi.