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TEODOSIO. Non si fa altro. Voi mi scalzate le scarpe. FILASTORGO. Perdonatemi, ché «ad un che desia, ogni prestezza è tarda». MASTICA. Mi ha giovato lo star qui intorno, perché ho inteso che costoro sono d'accordo e la cosa è riuscita a miglior fine che non pensava. Dunque io serò il primo che porterò la nuova a Sennia e per mancia ritornerò all'ufficio della cucina. O Sennia padrona, o padrona!

Se qui pace, o salute, i' non discerno Hor son certo che almen è un fermo stato che cui vi entra non mor, ma sta in eterno. Se per gratia a tal ben serò arrivato. Hor lasso che in sul marmo esto epygramma Sia scritto, acciò se intendea il dur mio fato Di Noturno è qui il corpo, & l'alma in fiamma Giace appresso Pluton, per donna, ingrata E se penando ben mai non sfiamma.

ESSANDRO. Quel che è fatto non può farsi che non sia fatto. GERASTO. Accomodaremo questo fatto poi con un altro fatto. ESSANDRO. Merito per ciò, dunque, d'esser ucciso? GERASTO. Ucciso, no; ferito di punta, ben , se il pugnale non mi vien meno, almeno finché ne serò satollo. ESSANDRO. Sète voi tanto crudele? GERASTO. A te è una pietá l'esser crudele.

O Dio, potessi allargarmi questo ventre altro tanto per verso, spalancarmi questa bocca, accrescermi un altro filaro di denti, allongarmi questo collo, che se mai fui Mastica ci serò questa sera, che non cessarò di masticar mai finché non toccherò con le dita che son pieno fin alla gola. Lascierò le parole, ché non cenino senza me. ANASIRA sola.

MASTICA. Perché morto che serò io, tu serai il piú gran poltron del mondo. SQUADRA. Taci, Mastica. Vuoi tu ucciderti con lui? MASTICA. Non ci uccideremo, no: poltron con poltrone non si fa male, «corvo con corvo non si cava gli occhi».

Vi prego a perdonarmi con quella generositá d'animo, eguale all'alte sue virtú, offerendomi in ricompensa, mentre serò vivo, servir voi e il vostro meritevolissimo sposo. CARIZIA. Signor don Flaminio, a me i travagli non mi son stati punto discari, perché da quelli è stato cimentato l'onore e la mia vita.

Or che m'hai portato la morte nella lingua. LECCARDO. Dubito averla portata a me stesso, ché per la mala novella non serò piú medicato come oggi. DON FLAMINIO. Da questo principio posso indovinar la mia sciagura: piú dolente uomo di me non vive sopra la terra! LECCARDO. Al fin, il mal bisogna sapersi ché si possa rimediar a tempo. E dicevano che le nozze si facevano domani all'alba.

GERASTO. Che sicurtá? che pentire? che trenta scudi? FACIO. Come trenta scudi? Dico che avendomi promesso... GERASTO. Parole. FACIO....trenta scudi... GERASTO. Se non l'hai meglio di questa,... FACIO....in iscambio delle mie vesti,... GERASTO....tu sei matto da dovero. FACIO....avendomegli promessi dinanzi duo testimoni,... GERASTO. Tu erri in grosso. FACIO....serò atto a farmeli pagare.

PANURGO. Ma avertite che non intende molto bene: bisogna alzar la voce ragionando con lui. GERASTO. Farò come volete. Ma bisogna aver alcuni con me, che bisognando lo ligassero. Trattenetelo un poco, ch'or ora serò qui. PANURGO. Gentiluomo, Gerasto è andato a tor i trenta scudi, che non se gli trovava adosso; or será qui. FACIO. Aspetterò quanto volete, non ho fretta. PANURGO. Ma eccolo.

Gerasto, sète contento voi per i trenta scudi? GERASTO. Contento, anzi vi servirò adesso adesso, che anderemo in casa: voi restate meco. FACIO. Volentieri. PANURGO. Orsú, io vi lascio insieme, ch'io vo per una cosa importantissima e serò a voi tra poco. GERASTO. Idio vi facci sano! FACIO. E voi sano e contento! GERASTO. Accostatevi, galante uomo. FACIO. Voi giá vi contentate per i trenta scudi?