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Aveano in questi i poltron paladini storia, commerzio e gran filosofia, tutto per dieci o quindici carlini, semi, piante, scoperte, geografia, manifatture, macchine, mulini, novelle, agricoltura, chirurgia, mediche controversie e pro e contrario, e carta da fregarsi il taffanario. Marco e Matteo non eran piú scrittori, ché di seccar le coglie erano rei.

MASTICA. Perché morto che serò io, tu serai il piú gran poltron del mondo. SQUADRA. Taci, Mastica. Vuoi tu ucciderti con lui? MASTICA. Non ci uccideremo, no: poltron con poltrone non si fa male, «corvo con corvo non si cava gli occhi».

E quel poltron di Lucifero porco facciami come vuol, se ben volesse farmi in pasticci o in brodo o in gelatina. Ma, per parer ch'io non parlo col vino, vorria contarvi pur di questi pazzi: di Girifalco vecchio; e di Crisaulo; e quello scimonito di Filocrate ch'al fin si mangia, in cambio di perdice, la carne de la madre di san Luca tutto l'anno avocata dei tinelli. So ben ch'io sono inteso.

SIRO. , ch'io bastemmio qualche volta me stesso; ché non posso omai durar con questo insopportabile, quasi ho detto, poltron. TIMARO. Che c'è di nuovo? SIRO. Ultimamente non m'ha minacciato di fare e dire, s'io non truovo modo ch'esca di questi affanni? TIMARO. O dágli il modo. SIRO. E come? TIMARO. Che s'appicchi per la gola! SIRO. Or non ho punto voglia di scherzare.

FACCHINO. che soie mi? SBIRRI. Sei stato in doana? FACCHINO. Non mi. SBIRRI. Che c'è drento? Di' . FACCHINO. Non l'ho visto o verto mi. SBIRRI. Dillo, poltron! FACCHINO. El me fu deccio che 'l ghera seda e pagni. SBIRRI. Sede? FACCHINO. Madesine. SBIRRI. È chiavato? FACCHINO. E' crezo de no mi. SBIRRI. Le son perdute. Posa giú. FACCHINO. Eh! no, misser. SBIRRI. Posa, poltron!

Vo' perdonargli; e come soglio vincer tutti, cosí vo' vincere me stesso. Viva, viva! e io insieme con lui. A dio. TRINCA. A dio. Non ho visto poltron simile a costui, a giorni miei. CONSTANZA vecchia, sola. CONSTANZA. Io non posso se non infinitamente ringraziare Idio, poiché egli infinitamente m'ha favorito.

TRASIMACO. Férmati, o tu, di grazia; ch'or che ferve l'ardor dell'ira, e son tutto rabbia e furore, e la colera mi soverchia ché l'induggio, che si frapone alle vendette, allarga le ferite del cuore, vo' che sii spettatore del castigo, che vo' dar a quel poltron di Gulone, perché sei stato relator delle mie ingiurie.

MASTICA. Io morto di fame? se mi porrò mano in gola, vomiterò tanta robba che potrò dar a magnare a dieci di pari tuoi. TRASILOGO. Squadra, porta qua dieci some di bastoni, ché non posso sopportar piú. Poltron, non parlare se non quanto le tue spalle ponno sopportar bastonate. MASTICA. Non ti mette conto che m'uccidi. TRASILOGO. Perché?

Che accidenti son li miei? FESSENIO. Per forza di negromanzia se' diventato femina. LIDIO femina. Io femina? FESSENIO. Femina, . LIDIO femina. Male il sai. FESSENIO. Però chiarir me ne voglio. LIDIO femina. Ah poltron! che vuoi tu fare? FESSENIO. So che io lo vederò. LIDIO femina. Ahi sciagurato! A questo modo, ah? FESSENIO. Con man lo toccherò, se me amazzassi. LIDIO femina. Ah prusuntuoso!

PILASTRINO. Non ti potrei dire che voglia m'è venuto in cima a l'unghie di dare a sto poltron pien di peccati una man di punzoni! Ma non voglio, ora che sono acconcio, ruinarmi. Vedi Amoraccio! Parti che sia un putto o pure un gran signor? Parti che sappia, quando ci ha sotto i piedi, arragazzarci e farci gioco al vulgo? I premi, poi, son le crocce, la paglia e 'l boccalone. Ecco Artemona. Addio.