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Questo è il perpetuo nido di gentilezza, la reggia d'Amore che ha lasciato il suo Cipro per abitare in Napoli; questo è il palaggio delle grazie, riposo de' miei pensieri, ricetto delle mie speranze. Oh, come par che qui il sol piú chiaro risplenda che altrove! oh, quanto goderebbe il cor mio se non avesse a partirmi di qui mai!

DON RODORICO. Io per non partirmi dalle leggi del giusto e per non veder la disperazion di tuo fratello, mi è paruto accomodarlo in tal modo. DON IGNAZIO. Ma non vuol la legge del giusto che per accomodar uno si scomodi un altro. DON RODORICO. A chi ho fatto pregiudizio io? DON IGNAZIO. A me, a cui la rimasta sorella si convenia per piú legittime ragioni. DON RODORICO. Per che ragioni?

DON FLAMINIO. Cosí vo' fare. PANIMBOLO. Ma ecco la peste de' polli, la destruzione de' galli d'India e la ruina de' maccheroni! LECCARDO parasito, PANIMBOLO, DON FLAMINIO. LECCARDO. Non son uomo da partirmi da una casa tanto misera prima che non sia cacciato a bastonate?...

«Che hai che pur inver’ la terra guati?», la guida mia incominciò a dirmi, poco amendue da l’angel sormontati. E io: «Con tanta sospeccion fa irmi novella visïon ch’a mi piega, ch’io non posso dal pensar partirmi». «Vedesti», disse, «quell’antica strega che sola sovr’ a noi omai si piagne; vedesti come l’uom da lei si slega.

Figlia, ti prego per quello latte che asciugasti dalle mie poppe, per quei dolci travagli che ho sofferti in allevarti e nudrirti giacché tu non conosci tua madre, ch'io son stata la tua balia e la tua madre, che tu non corri con tanta furia. Vo' partirmi, ché non ti incontri con lui dinanzi gli occhi miei. Ahi, che solo pensandoci mi si schianta il core!

Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci. ESSANDRO. Dove avete lasciati i garofoli? GERASTO. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze. ESSANDRO. Vo' partirmi. GERASTO. Férmati un altro poco.

<<Che hai che pur inver' la terra guati?>>, la guida mia incomincio` a dirmi, poco amendue da l'angel sormontati. E io: <<Con tanta sospeccion fa irmi novella visiion ch'a se' mi piega, si` ch'io non posso dal pensar partirmi>>. <<Vedesti>>, disse, <<quell'antica strega che sola sovr' a noi omai si piagne; vedesti come l'uom da lei si slega.

Tratto dal mio voler giá torno in dietro e di mai non partirmi da lei bramo. Ella quel bel destrier c'ha 'l fren di vetro è giá salita, e d'un frondoso ramo di mirto il tocca e contra un folto e tetro bosco lo caccia. Io che pur troppo l'amo, correndo a tergo, me ne doglio e strazio, e luntanato son da lei gran spazio. «Malorum esca». PLAT.

Avete il torto a star cosí sul rigor del primo decreto: m'avete cosí inacerbite le piaghe dell'anima che me ne sento morire. ERASTO. Seguite. Par che non abbiate parola: che mutazione è questa? voi mi parete mezo morto! CINTIA. Sento un svenimento d'animo che mi pone in forse tra il vivere e il morire. ERASTO. O Dio, che cosa è questa? Cintio mio, rivenite! CINTIA. Ho fretta di partirmi; adio.

TRASILOGO.... E ave un bel manico d'avorio posticcio. MASTICA. Pasticcio? questo si che l'accetto. TRASILOGO. Ti lascio, ch'io vo' partirmi. MASTICA. E quando pransaremo? TRASILOGO. Io vo a desinare con S. E. questa mattina, che iersera ne volse la fede mia di non mancarle. Questa sera cenerai nel banchetto della tua padrona, ché ben sai che dove la sera si fan nozze la mattina non vi si mangia.