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AMASIO. Che Amor è cieco, non ferisce chi deve, è ingiusto, poiché patisce che non sia riamato chi ama; maledice la sua mala ventura; chiama Cintio ingrato e senza core, ché non corrisponde con amore a tanto amore. LIDIA. Dicete una bugia: c'ho lasciato d'amar Cintio. AMASIO. Non lece dir bugie. LIDIA. È vero; ma è manco male quando giova a chi la dice e non nuoce a chi l'ascolta.

NARTICOFORO. Io mi contento e plus quam contento che sia Ersilia di Cintio, che quella piú di Cleria io exoptava. GERASTO. Io ti scioglio, Carisio caro; e ponendoti tu in mio luogo, credo che essendo onorato, come ti stimo, aresti fatto altrotanto a me. Ma chi è quello cosí contrafatto che mi avete condotto in casa?

GERASTO. Ho maritata la tua padroncina. ESSANDRO. Con chi? GERASTO. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo. ESSANDRO. Chi è questo giovane cosí aventuroso? GERASTO. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d'accordo della dote e d'ogni cosa. ESSANDRO. Come non n'avete fatto parola mai?

SINESIO. L'ascoltarete. Sappiate che Cintio vostro figliuolo, fingendo di far giacere Erasto mio figlio con una certa sua innamorata, gli ha supposta in cambio di lei qualche donna di cattivo essere; ed egli intanto se ne veniva in mia casa dove era ricevuto come figliuolo, e sotto color di voler Lidia mia per isposa, l'ha tolto l'onore.

CINTIA. Di grazia, signor mio, stendete la vista per la strada e per le fenestre, ché non vi sia alcuno che stia spiando i fatti nostri. ERASTO. Non appar anima viva. BALIA. Amasia Amasia, presto presto! ché Cintio vi chiama ché vostro padre vi cerca. CINTIA. Cor mio, perdonatemi. Eccomi eccomi!

O caso non piú intervenuto! e se il racconto, che fia di Cintio? DULONE. Voi l'avete fatta, padrone, assai onorata: provocate prima Cintio all'armi, ed egli facendovisi incontro animosamente con la spada poi, l'avete sfuggito. ERASTO. Volevi tu che avessi ammazzato una donna? DULONE. Che donna? ERASTO. Quando si slacciò il giubbone, si ruppero i lacci della camicia e dimostrò una mammella nuda.

Diceva la casa mia essere appestata, che lui era Narticoforo e ch'io non fusse Gerasto; alfin volea che Cintio non fusse figlio di Narticoforo. ESSANDRO. Voi sète Gerasto medico, eh? GERASTO. Io son; che volete per questo? ESSANDRO. Avete voi avuto rissa con un maestro di scola? GERASTO. Con uno che per tale si volea far conoscere.

GERASTO. Parla: chi è costui? forse lo troverai piú presto. GRANCHIO. Gerasto medico. GERASTO. Ecco, l'hai trovato, non cercar piú. Tu chi sei? chi ti manda? che sei venuto a fare? GRANCHIO. Io son Granchio, servo di Narticoforo romano, che mi manda per correo innanzi, ché lo avisi come esso e Cintio suo figliuolo sono in Napoli e or se ne vengono a casa sua.

ERASTO. Farò come ti ho detto, ancorché ci vada il rischio di perdervi la sua grazia. DULONE. Fratanto farò la spia se Cintio venisse fuori, e mentre voi vi trastullerete con lei, s'egli si trastullerá con Lidia vostra sorella. ERASTO. Questo tuo suspetto è vano. Accostiamoci alla casa. Ma non so chi vien per qua: sará certo il capitano.

CAPITANO. Ho visto la persona, le vesti, il ventre gonfio, e intesa la voce di Amasia; il volto non ho potuto veder bene. Ma perché Cintio è il mezano del suo amore? DULONE. Son grandissimi amici da che furon bambini. CAPITANO. Oimè, che sento indragarmi d'amore e inserpentirmi di gelosia!