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LIMOFORO. Tu non sei Limoforo; ma vorresti esserci per ingannar me, che sono il vero Limoforo. PEDANTE. Tarde venisti, domine. PSEUDONIMO. Son venuto molto presto, piú che aresti voluto; e mal per voi. LIMOFORO. Tu veramente sei un furfante, un truffatore. PSEUDONIMO. Voi molto vi discomponete verso di me. LIMOFORO. Perché n'ho ragione. PSEUDONIMO. Che ragione?

MERETRICE. Lassa pur governallo a me. FESSENIO. Fa' che, sopra tutto, tu ti ricordi, nota, di chiamarti Santilla e di tutte l'altre cose che io t'ho detto. MERETRICE. Non mancherò d'un pelo. FESSENIO. Altrimenti non aresti un baghero. MERETRICE. Tutto farò benissimo. Ma oh! oh! oh! Che voglian questi sbirri dal facchino? FESSENIO. Oimè! Salda, cheta! Ascolta. SBIRRI. Di' : che è qui drento?

Ella era bella che non sapevi se la bellezza facesse bella lei o s'ella facesse bella la bellezza; perché se la miravi aresti desiderato esser tutto occhi per mirarla, s'ella parlava esser tutto orecchie per ascoltarla: in somma tutti i suoi movimenti e azioni erano condite d'una suprema dolcezza.

CHIARETTA. Va' e fa' altre arti, ché di caccia di donne tu non te n'intendi. MARTEBELLONIO. Troppo gran bocca avevi tu aperta, che aresti ingiottito il cane e il padrone intiero intiero. CHIARETTA. Non bisognava altrimenti, avendo a combatter con can debole di schiena.

PELAMATTI. So che non dici a me. PANURGO. A te dico io, a te. PELAMATTI. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh? PANURGO. Volevi tu spezzar quella porta? PELAMATTI. Ancora non ci era accostato. PANURGO. Ti toglio la fatica di battere, e par che te ne spiaccia. PELAMATTI. E se fusse tua madre, aresti tanta paura che fusse battuta?

PROTODIDASCALO. Bona verba, quaeso. FILASTORGO.... Che? se tu avessi visto gli atti e le parole, aresti giurato o che egli non fusse egli o che io fussi un altro. PROTODIDASCALO. Udienza per due verbicoli. FILASTORGO. Hai tu forse animo d'iscusarlo?

GIULIO. Mentre hai detto cotesto, aresti risposto a quanto voleva. Mastica sa queste cose? SQUADRA. Come non le sa, s'egli ha portato e riferito l'ambasciate e ogni giorno mangia col capitano? GIULIO. Mi sapresti dir dove fusse? SQUADRA. Ove si mangia o si tratta di mangiare. GIULIO. Tutto questo sapevo io. SQUADRA. Perché dunque ne me dimandi?

NEPITA. Poiché siam venute su questo, vo' che il dica: se non, che ci daremo infino a tanto delle pugna che ne sputiamo i denti. ESSANDRO. Ti duoli di me che t'abbi tolto il padron vecchio Gerasto, che prima era tuo innamorato. NEPITA. Oh, lo dicesti pure! ESSANDRO. Ma se tu sapessi la cosa come va, non mi porteresti tanto odio, non aresti gelosia di me e m'amaresti come amo io te.

GIULIO. Se tu m'avessi detto con chi, a me aresti tolto fatica di dimandare e a te di rispondere. SQUADRA. Con Olimpia figliuola di Sennia, questa nostra vicina. GIULIO. Questo è vero? SQUADRA. Piú vero del vero. SQUADRA. Non mi date piú fastidio, di grazia. GIULIO. Te ne darò mentre non mi dici quanto desidero. SQUADRA. Non vedete che sto carrico, ho fretta, ho da far molte cose e ho poco tempo?

Che buon per me? che aresti fatto? RUFINO. Avria mandato per madonna Fulvia. CURZIO. E pur ritorni. RUFINO. Ci torno, signor ; e ritornaròvi sempre, ché voi non avete però causa di volergli male. CURZIO. Io, per me, non gli vo' male. Tu hai torto. RUFINO. Assai mal me pare che li vogliate, quando la tenete lontana da voi.