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APOLLIONE. Son Apollione de Fregosi suo zio, che vo tre anni disperso per averne novella. GERASTO. Certo avete una nipote molto onorata e da bene! APOLLIONE. Tutto è per vostra cortesia, ché, stando in casa onorata come la vostra, stava sicuro che contagione di pessimi costumi non l'arrebbono corrotta.

Gentiluomini, mi sapreste dar voi nuova di Gerasto di Guardati? GERASTO. Niuno ve ne può dar piú certa nuova di me, perché io son detto. Ma che volete da me? APOLLIONE. Saper solo se in casa vostra fusse una fantesca chiamata Fioretta, che son tre anni che si partí di casa mia. GERASTO. Chi sète voi che me ne dimandate?

APOLLIONE. Gerasto caro, sappiansi l'ingiurie che stimate aver ricevute da noi, accioché possiamo far le debite sodisfazioni.

ESSANDRO. Il misero non crede a nulla che di ben gli sia detto. PANURGO. Vieni, corri, vola e vedi il tutto vòlto in allegrezza. ESSANDRO. Rispondi a quanto ti domando, parla piú chiaramente il tutto: Cleria è fatta mia? PANURGO. . ESSANDRO. Gerasto m'ha perdonato? PANURGO. . ESSANDRO. È venuto mio zio Apollione? PANURGO. . ESSANDRO. Mio padre ancora? PANURGO. .

APOLLIONE. Veramente la nostra vita è tutta piena di travagli, si può prometter l'uomo che faticando sempre nella gioventú, possi nella vecchiezza riposare; ché quando stimi giá esser accomodato del tutto, allora da ogni parte vengono pericoli inopinati per turbarci il viver quieto.

APOLLIONE. Amici, la forza del sangue è cosí grande che si fa conoscere da se stessa: io mi sento tutto il sangue commosso. NARTICOFORO. Ancor potrebbe esser vero quel che dice, e noi non cel crediamo. Questo acquista chi è uso a mentire: che dicendo il vero non gli è creduto. «Qui semel malus, semper praesumitur malus in eodem genere mali».

APOLLIONE. Suo nome Essandro, suo padre Carisio, io Apollione; e se ben perdemmo in quel conflitto molte robbe, pur non siamo tanto poveri che in casa nostra non sieno trentamila ducati. PANURGO. O fratello carissimo, Apollione desiato lungo tempo di rivedere! benedetti questi legami di carcere e le disgrazie, poiché in esse mi tocca di rivederti!

PANURGO. Vi chieggio una grazia, Gerasto, che possa baciar mio figlio, gli dia questa allegrezza e non lo facci piú disperare. GERASTO. Eccovi la chiave; quella è la stanza terrena. APOLLIONE. Entriamo. PANURGO. Essandro, padron mio caro, come state? ESSANDRO. Accompagnato da una amarissima compagnia di pensieri. PANURGO. Non domandi di tuoi successi? ESSANDRO. Per allungar la speranza!

APOLLIONE. Sia benedetto Iddio che ci ha fatto giungere a tempo di remediarci! Orsú, Gerasto caro, l'indegno atto e l'offesa che ha usata contro te, n'è stato cagione amore; ché ben sapete che amore e ragione mai potero apparentare insieme, e la legge d'amore è romper tutte le leggi e non servar legge ad alcuno.

APOLLIONE. Questo che dice è vero, e a me par mio fratello. PANURGO. Non hai tu un segnale nella schena, ché avendoti in braccio, quando era piccino, ti fei cadere e percotere in una pietra aguzza, di che giacesti duo mesi in letto e ancor ne devi aver la cicatrice? APOLLIONE. Questo è mio fratellissimo. O fratello ricercato e desiderato! NARTICOFORO. Può esser che tu voglia essere cosí credulo?