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Aggiornato: 5 luglio 2025
Ceca mia, quando me vòi far far un figliolo? CECA. Taci, balordo! E dove trovi tu che gli omini faccino figlioli? MALFATTO. O fallo tu, adunque; e io te cci voglio aiutare. CECA. Ne arei ben voglia. MALFATTO. Che dici? Non sei contenta, Ceca mia bella? CECA. Sí, sí. Dimme un po': el tuo patrone compone piú versi? MALFATTO. Sí. È andato verso qua giú. Poco stará a tornare.
LECCARDO. E quando starò abbracciato con te, mi parrá di gustare il sapor di tutti quest'animali, o mia vacca, o mio porchetto, o mia agnella, o mia capra! CHIARETTA. Starò dunque mal appresso te, che non mi mangi. Ma arei caro darti martello. LECCARDO. Sei piú atta a riceverlo che a darlo. Oh come par bella Carizia or che pompeggia fra quelle vesti.
BALIA. Giurerò, se cosí vuoi. AMASIO. Conosco la prontezza dell'animo: la tua promessa mi basta. Balia mia, se ben ho questi panni di donna attorno, io son maschio di dentro.... BALIA. Io arei giurato prima che me lo dicessi che cosí fossi, vedendo che incontrandoti con Lidia impallidivi, arrossivi e inspiritavi.
LAMPRIDIO. Perdonami, o carissima madre, poiché sotto questo venerabil nome di madre io t'ho ingannata; né io arei ardire comparirti dinanzi se la suprema bontá di Dio non avesse dato meglio esito alla mia audacia che io avessi saputo desiderare.
PANURGO. S'è inviato a dir a Sua Eccellenza; e fatto tòrre informazione del successo, ha dato ordine che tu sii giustiziato. ESSANDRO. M'hai tornato vivo, che non fu mai piú cara morte, perché d'ora innanzi arei sempre aborrita la vita. PANURGO. Ascolta fin al fine. ESSANDRO. Non posso ascoltare, perché attendo al fatto mio. PANURGO. Questi sono i fatti tuoi.
LECCARDO. Non vi conoscea, perché me diceste che venendo la vostra persona arei sentito il terremoto: son stato gran pezza attendendo se tremava la terra, però dubitavo se foste voi. MARTEBELLONIO. Dite bene, e ti dirò la cagione. Poco anzi mi è venuta una lettera dall'altro mondo.
DON IGNAZIO. Che un uomo possi ingannar un altro è facil cosa ma se stesso è difficile: ché quel che vidi, molto chiaramente il viddi, e per non averlo veduto arei voluto esser nato senz'occhi. EUFRANONE. Lo vedeste voi a lume chiaro? DON IGNAZIO. Anzi a sí nimico spettacolo rimasi senza lume! EUFRANONE. Gran cose ascolto!
Va' cavati questi panni. LELIA. Tanto v'aiti Dio, io arei voglia di marito! CLEMENZIA. Vanne in casa, Gherardo mio. Tutte le donne fan delle citolezze, chi in un modo e chi in un altro. E sappi che poche e forse niuna ve n'è che non scapuzzi, qualche volta. Pure, son cose da tenerle segrete. GHERARDO. Per me, non se ne saprá mai nulla.
PEDANTE. Padrone, oh quanto mutatur ab illo! E' non è piú fanciullo da pigliare in collo. Voi non lo conoscereste. Gli è fatto grande. E so certo che non riconoscerá voi, cosí sète mutato! Praeterea avete questa barba, che prima non la portavate; e, s'io non vi sentivo parlare, non vi arei mai conosciuto. Che è di Lelia? VIRGINIO. Bene. Gli è fatta grande e grossa.
DON FLAMINIO. Se vi fusse piú tempo, ve lo farei udir da mille lingue; ma perché viene la notte piú tosto che arei voluto, venete meco alle due ore, che andrò in casa sua: vi farò veder le sue vesti e i doni che l'avete mandati, e ce ne ritornaremo a casa insieme. DON IGNAZIO. Se me fate veder questo, farò quel conto di lei che si deve far d'una sua pari.
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