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GERASTO. Non è piú infelice vita al mondo di quella d'un vecchio e innamorato; ché se la vecchiezza porta seco tutte le infirmitá e imperfezioni, amor tutte le doglie e passioni ch'una di queste non bastano diece persone a sostenerle, or pensate queste due in un sol uomo quanti travagli gli ponno dare.

PANURGO. È scemo di cervello. Venendo da Roma, lo trovai nell'osteria; e ragionando come si suole, dicendogli che veniva in casa di un medico famoso, mi pregò che l'introducesse a voi che lo guarissi d'una infirmitá che patisce, non so se umor maninconico o discenso lunatico.

GERASTO. Strana infirmitá! come l'ha tutto trasformato! PANURGO. Era il piú formoso giuvenculo che avesse la cittá di Roma, che da molte nobili matrone era chiesto in copula matrimoniale; e poi non so qual oculo maligno l'ave affascinato, overo discenso lunatico, e fatta la metamorfosi che vedete con intúito oculare. GERASTO. In tanti anni che ho essercitato la medicina, non ho visto tal caso.

SANTINA. Che pilole son queste? per qual infirmitá? SPEZIALE. Certe pilole che m'ha chieste per esser gagliardo in una battaglia amorosa che vuol far con una sua serva. SANTINA. Chi ha detto a te questo? SPEZIALE. Me l'ha detto lui, mentre stava mescolando la composizione. SANTINA. Come si chiama questa sua serva? SPEZIALE. Garofoletta o Rosetta, se mal non mi ricordo.

TRINCA. E dice queste e altre cose. PARDO. Che altre? TRINCA. Mi vergogno di dirle. PARDO. Dille in tua malora, ché mi fai venir la rabbia. TRINCA. Dice che patite di non so che infirmitá di stomacali, e che ci avete tanto prorito, che andate cercando chi ve li gratti. PARDO. Mente e stramente per la gola. TRINCA. E dice averlo inteso da molti. PARDO. Mente per l'orecchie.

La sua infirmitá è piú finta che vera: vorrebbe esser venduta a suo gusto, ma s'inganna, ché io uso ostinazione con gli ostinati, e con ostinata perfidia vincerò la sua perfidia. Son tre giorni che non le do da mangiare; e se non si risolve di far a mio modo, io perderò i cinquecento ducati, voi l'innamorata ed ella la vita.

MANGONE. Se la vedeste adesso, non la riconoscereste, cosí son gli occhi scoloriti e le labra smorte e sparito il fior delle guancie. Io son furbo e conosco al naso le sue infirmitá. Ella sta martellata di Pirino; e quando intese ch'era stata compra da voi, trafitta dalla disperazione, le venne quello accidente.

Questa mia figlia mi serviva a medicarmi e a mutarmi gli empiastri; fra pochi giorni, le venne la medema infirmitá e dal bellíco in giú l'ha tutta rósa e divorata, che non può piú servir per femina. E di piú, le è discesa una ernia di sotto, che è piú tosto un mostro che umana creatura; e ogni cosa che tocca infetta della medema peste.

PANIMBOLO. Io ho recette esperimentate per le tue infirmitá. LECCARDO. Dimmele, per amor de Dio! PANIMBOLO. Al gorguzale ci faremo una lavanda di lacrima e di vin greco molte volte il giorno. LECCARDO. Oh, bene! ho per fermo che tu debbi essere figlio di qualche medico. E se non guarisce alla prima? PANIMBOLO. Reiterar la ricetta. LECCARDO. Almeno per una settimana! Che faremo per li denti?

Studi giovar, e con remedi nuovi sani ben lunga infirmitá, che pria curò, ma non sanò, medica mano. Cosí il ciel, e chi può, non facci vano del tuo pronto saper l'effetto sia*, come in un tempo dilettando giovi.