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SANTINA. Vo' che tu facci esperienza con questa tua ricetta: arai meglio creanza. SPEZIALE. Ritorni di nuovo? che hai meco, ti dico? non accostarti, vecchia indiavolata! SANTINA. Perché non fece effetto la prima volta, la vo' continuare finché guarisci, ché abbi meglio creanza: non vo' che dii questi consigli contro me.

SANTINA. «Chi ti fa quello che far non suole, o t'ha ingannato o ingannar ti vuole». GERASTO. Non si può star sempre ad un modo, moglie mia cara. SANTINA. Oh come odori di muschio, mi pari una profumeria. GERASTO. Passando per la bottega di maestro Cesare profumiero, mi spruzzò un poco d'acqua nanfa sul volto. SANTINA. Non so chi mi tiene la lingua. GERASTO. Lasciamo il ragionar di questo adesso.

GERASTO. O misero me, quando questi sassi si rompono di stracchezza, ella adesso vuol cominciare! quando finirá, se adesso comincia? in ogni modo, tu hai da star di sopra. SANTINA. Forse non son io la peggior femina trattata del mondo? GERASTO. Ti batto, forse? SANTINA. Guai a te, se avessi tanto ardire! GERASTO. Di che dunque ti lamenti?

NEPITA. Sventura ti pare ritrovarsi con un giovane bello, di diciotto anni, nel fior degli anni suoi? oh, l'aveste incontrata voi, padrona, questa sventura! SANTINA. Taci, porca, pensi che tutte le donne sieno cattive come sei tu? Frena la tua lingua cattiva. NEPITA. Cattiva lingua vi pare quella che dice il vero?

SANTINA. Io con men di cento. GERASTO. Io con men di cinquanta. SANTINA. Io con men.... GERASTO. Lasciami finir di parlar, se vuoi. Colui se la torrá nuda. SANTINA. Questo mio gli fará la sovradote. GERASTO. Il mio gli dará cento ducati di piú. SANTINA. Il mio, dugento. GERASTO. Il mio.... SANTINA. Anzi il mio.... GERASTO. Tu non sai che voglio dire, e passi innanzi.

GERASTO. Se lo diceva a Santina mia moglie, che è una cicala, sarebbe andata cicalando per gli parenti, amici e vicini, e n'arebbe pieno Napoli in un'ora; e poi forse non essendo d'accordo, saressimo stati burlati da tutti. ESSANDRO. Quando dunque verran costoro? GERASTO. Quanto prima, e forse verran oggi che è giornata del procaccio. ESSANDRO. Oimè!

GERASTO. Maritaremo subito Fioretta e la caveremo di casa, che non è buona per servire: è troppo delicata, pare una gentildonna; ne troveremo una piú rustica, che possa spezzar legna, carriarle, far la bucata, star in cocina e sovra tutto, bisognando, toccar delle bastonate. SANTINA. Fioretta l'ho maritata giá. GERASTO. L'ho maritata io con un mio amico con men di dugento ducati di dote.

NEPITA. Cavargli gli occhi e troncargli il naso ben potete, ma non por mano ad altro. SANTINA. Non ti par buona vendetta? NEPITA. A me, padrona, no. Io gli renderei pan per focaccia. SANTINA. Taci, ché sei una pazza. Vorrei piú tosto esser stracciata da mille lupi, che esser tócca da un sol uomo che non fusse mio marito.

Alfin le stava inginocchiato denanzi; ella tira a i piedi e mi da una coppia di calci sul petto e mi fa cascar supino in terra, che mancò poco non mi scavezzassi il collo.... SANTINA. Sia maladetto quel «poco»!

SANTINA. Che dici, Nepita? non l'hai inteso con le tue orecchie? comporterò io d'esser cosí mal maritata? Non la passerá certo senza vendetta: io vo' aventarmegli adosso come una cagna. NEPITA. Or questo no, padrona: fategli ogni altro dispiacere e lasciate questo. SANTINA. Vo' cavargli gli occhi e troncargli il naso con i denti.