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Cosi` scendemmo ne la quarta lacca pigliando piu` de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant'io viddi? e perche' nostra colpa si` ne scipa? Come fa l'onda la` sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, cosi` convien che qui la gente riddi.

Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant'io calcai, fin che chinato givi. Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto si` che veggiate il vostro mal sentero! Piu` era gia` per noi del monte volto e del cammin del sole assai piu` speso che non stimava l'animo non sciolto,

Se per lodarvi e dir quanto s'onora di voi natura e 'l ciel, Tullia gentile, fosse eguale al soggetto in me lo stile, e 'l saper pari a l'alta voglia ancora; forse non tanto il secol nostro indora vostra virtute, e non dal Gange al Tile fate voi co' i begli occhi eterno aprile, quant'io n'avrei grazie e favori ognora.

Invano io lo sperai; sterile pianta, il trono per te d'eredi orbo restava; e tolto m'era, per te, di padre il dolce nome. Ti repudiai perciò. OTTAV. Ben festi; ov'altra, troppo piú ch'io nol fui, felice sposa farti di cari e numerosi figli lieto potea, ben festi. Altra che t'ami quant'io, ben so, non la trovasti ancora, troverai. Ma che? mi opposi io forse ai voler tuoi?

Possiate esser felice, sebbene io rimarrò eternamente infelice, possiate essere felice quant'io ve lo desidero con tutto il cuoreGli mancò la voce a queste ultime parole, impallidì, gettò su di lei uno sguardo di tenerezza e dolore inesprimibili, e fuggì precipitosamente.

Tu sai pur quant'io t'amo. FRONESIA. Appágati di questo, Lúcia. C'è peggio. LÚCIA. E che mi può far peggio? FRONESIA. Volesse Iddio che cosí fosse il vero! ché sarei piú contenta. LÚCIA. Dimmi tutto quello che c'è, se mi vuoi far piacere. Non indugiar. FRONESIA. Questo non farò io: ché so meglio di te se sia piacere intender cose tali; e poi non voglio, per l'affezion che gli hai.

Veramente quant'io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sara` ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor si` fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'e` uopo intrar ne l'aringo rimaso.

NER. Io t'amo, Poppea, tu il sai: di quale amor, tel dica quant'io giá fei; quanto a piú far mi appresto. Ma tu... POPPEA Che vuoi? poss'io vederti al fianco quell'odíosa donna, e viver pure? poss'io pur pensarvi? Ahi donna indegna! che amar Neron, può, sa, vuole; e pur finger l'osa.

OTTAV. Deh! scordarti tu al par di me potessi questi miei dritti, veraci pur troppo, poi ch'io ne traggo veraci danni!... D'odio e furor lampeggiano i tuoi sguardi? Oh me infelice donna! Piú ognor ti offesi quant'io piú ti amai. Ma, che ti chiesi? e che ti chieggo? oscura solinga vita, e libertá del pianto.

Nel ciel che piu` de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire ne' sa ne' puo` chi di la` su` discende; perche' appressando se' al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non puo` ire. Veramente quant'io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sara` ora materia del mio canto.