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Erami duro vedermi innanzi ognor colei, che s'ebbe, non lo mertando, il mio Neron primiera: ma, del suo esiglio paga, a' suoi delitti stimai che pena ella ben ampia avesse, nel perder te: pena, qual io... NER. Deh! lascia parlar Seneca, e il volgo. A Roma or ora chiaro farò, qual sia quest'idol suo.

Cara ei ti tiene, perché a lui tante uccisíon costasti; ma se un periglio, anco leggier, gli costi, spento è l'amore. Allor mercede aspetta, quella, onde avaro mai Neron non fia; a chi piú l'ama piú crudel la morte. POPPEA Ecco Neron; prosiegui. SENECA Altro non bramo. NER. Perfido; ed osi al mio divieto?... POPPEA Ah! vieni; vieni, ed udrai...

Rieda pur ella, che Neron sul seggio locò del mondo; ella a cacciarnel venga. Di te mi duol, non di me no, ch'io presso d'Otton mio fido a ritornar son presta Amommi ei molto, e ancor non poco ei m'ama: potess'io pur quell'amator fermo riamare! Ma il cor Poppea non seppe divider mai; vuole ella il tuo core con l'abborrita sua rival diviso.

TIGEL. Ciò far vogl'io: ma il mezzo ottimo a tanto effetto in cor giá fitto Neron si avr

TIGEL. Nol provocare a sdegno mai: tu molto puoi sul suo cor; ma, piú che amor, può in lui impeto d'ira, ebrezza di possanza, e fera sete di vendetta. Or vanne: meco in quest'ora ei favellar quí suole: ogni tua cura affida in me. POPPEA Ti giuro, se in ciò mi servi, che in favore e in possa nullo fia mai ch'appo Neron ti agguagli.

Il fratel mio giá vidi cader fra le notturne tazze spento; scritto in note di sangue a mensa anch'era d'Agrippina l'eccidio: ognor la prima vivanda è questa, che a sue liete cene imbandisce Neron; le palpitanti membra de' suoi.

POPPEA ; ma frattanto un passeggiero lampo può di favor sforzato ella usurparsi. Ci abborre Ottavia entrambi: a cotant'ira qual ti fai scudo? il voler dubbio e frale di un tremante signore? A perder noi solo basta un istante; a noi che giova, se cader dobbiam pria, ch'ella poi cada? TIGEL. Che un balen di favore a lei lampeggi, nol temer, no: di Neron nostro il core ella trovar non sa.

NER. Stromento giá di mia grandezza forse ell'era: ma, stromento de' miei danni fatta era poscia; e tal pur troppo ancora dopo il ripudio ell'è. La infida schiatta della vil plebe osa dolersen? osa pur mormorar del suo signor, dov'io il signor sono? Omai di Ottavia il nome, non che a grido innalzar, non pure udrassi sommessamente infra tremanti labra, mai profferire; o ch'io Neron non sono.

Pietá della innocente illustre donna, amor del giusto, e lungo tedio d'ingrata vergognosa vita, parlar mi fanno: ad ascoltar ti muova tuo interesse, e null'altro. POPPEA Udiam: che dirmi puoi tu? SENECA Che molto increscerai tu tosto a Neron, s'ei pur vede il popol fermo tenacemente in odiarti. Il vero ti dico in ciò: sai ch'io Neron conosco, Roma, i tempi, e Poppea.

Ogni piú infame scherno di lei si fa: colmo è Neron di laudi: ma in bando almen voglion Poppea: manca chi temerario anco sua morte grida. Inni festivi, e in un minacce udresti; poi preghi, indi minacce, e preghi ancora. Arde ogni cor; dell'obbedire è nulla. Tentan duci e soldati argine farsi alla bollente rapidissim'onda; invan; disgiunti, sbaragliati, o uccisi, è un sol momento. Omai, che far?