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SENECA Oh ciel!... Che ascolto?... Morte d'impeto insano esser de' figlia? OTTAV. A vile tanto mi hai tu, che d'immutabil voglia non mi estimi capace? Or, non è forse morte il minor dei minacciati danni? Ch'altro mi resta? di'. Tu taci? SENECA ... Oh giorno! OTTAV. Su via, rispondi: altro che far mi avanza? SENECA ... Mi squarci il cor... Ma, poss'io mai crudo esser da ciò?...

SENECA Infin che grida di plebe ascolto, che il furor tuo crudo col tuo timor rattemprano, t'è forza soffrirmi ancora: e l'irritarti intanto giova a me molto; e il farti udir il vero, che al ritornar del tuo coraggio io cada vittima prima: e, se me pria non sveni, Ottavia mai svenar non puoi, tel giuro.

SENECA Signor, non sempre i miei consigli a vile tenuto hai tu. Ben sai, com'io, coll'armi di ragion salde, arditamente incontro al giovanile impeto tuo mi fessi. Biasmo, e vergogna io t'annunziava, e danno, dal repudio di Ottavia, e piú dal crudo suo bando.

I Romani imitarono i Greci, Seneca s’indigna di veder nominare console un cunnilinguo: «Ignoravi tu dunque, quando nominasti console Mammercus Scaurus, che egli inghiottiva a bocca aperta i mestrui delle sue serve? E se ne nascondeva forse? E ci teneva forse ad apparire un uomo puro

E invece di mandarti a fiamme l'anima con belle dissertazioni politiche, con argomenti pro e contra, a modo de' nostri avvocati, egli ti pone sott'occhio le virtú ed i vizi in azione: il che ti scema l'interesse e ti fa tepido. Quello Schiller poi, se 'l paragoni, non dico con altri, ma col solo Seneca, ti spira miseria.

Democrito, che 'l mondo a caso pone, Diogenes, Anassagora e Tale, Empedocles, Eraclito e Zenone; e vidi il buono accoglitor del quale, Diascoride dico; e vidi Orfeo, Tulio e Lino e Seneca morale; Euclide geometra e Tolomeo, Ipocrate, Avicenna e Galieno, Averois, che 'l gran comento feo.

NER. Dimmi; tremavi quel , che tratto a necessaria morte il suo fratel cadeva? e il , che rea pronunziavi tu stesso la superba madre mia, che nemica erati fera, tremavi tu? SENECA Che ascolto io mai? l'infame giorno esecrando rimembrar tu ardisci?

POPPEA Da me che vuoi? SENECA Scusa, importuno io vengo: ma forse, io vengo in tuo vantaggio... POPPEA Or, donde tal cura in te dell'util mio? Mi fosti amico mai, il sei? Cagion qual altra, che di volermi nuocere?... SENECA Giovarti mai non vorrei, per certo, ove non fosse misto per or di Ottavia il minor danno all'util tuo.

L'amico Passano strinse la destra di quell'altro Seneca; e vuotato il suo calice fino all'ultima goccia, che non era d'aceto, si avviò verso la scala.

POPPEA Tutto conosci, fuorché te stesso. SENECA Al mio morir vedrassi, s'io me pure conobbi. Odimi intanto, odimi, prego. A tua rovina or corri col bramar troppo tu d'Ottavia i danni. Roma te sola e del ripudio incolpa, e dell'esiglio suo: se infamia, o pena maggior le tocca, ascritta a te fia sempre. Quindi l'odio di te, giá grave, in mille doppj or si accresce, e il susurrare.