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Aggiornato: 3 luglio 2025
DON IGNAZIO. Vi priego a trattenervi un altro poco, accioché gli occhi mei abbino il desiato frutto di lor desiderio. CARIZIA. I prieghi de' padroni son comandi a' servi; e se ben i rispetti delle donzelle non patiscano tanto, pur per un marito si deveno rompere tutti i rispetti. Eccomi apparecchiata a far quanto mi comandate. DON IGNAZIO. Cara padrona, mi basta l'animo solo.
Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia non procedesse, come tu avresti di piu` savere angosciosa carizia; e per te vederai come da questi m'era in disio d'udir lor condizioni, si` come a li occhi mi fur manifesti. <<O bene nato a cui veder li troni del triunfo etternal concede grazia prima che la milizia s'abbandoni,
Ed è possibile che si trovi cosí poca fede negli uomini? Or chi avesse creduto che don Ignazio, venutomi tanto tempo appresso per parlarmi e con tante affettuose parole, con tante lacrime e promesse, non fusse tutto fuoco e fiamme per Carizia?
Io furtivamente mirava gli occhi di Carizia, i quali quanto erano vaghi a riguardare tanto pungevano poi, e quanto piú pungevano tanto piú ti sentivi tirar a forza di rimirargli; e riguardando non si volean partire come se fussero stati legati con una fune, talché non sapeva discernere qual fusse maggiore o la dolcezza del mirare o la fierezza delle punture: al fin conobbi che l'uno era la medicina dell'altro.
CARIZIA. Troppo vile e indegna è quella persona che si lascia vincere in amore; e se piacerá a Dio che siamo nostri, allora faremo contesa chi amerá piú di noi, ed io dalla mia parte non mi lasciarò avanzare da voi. Adio. DON IGNAZIO. Ecco tramontata la sfera del mio bel sole, che sola può far sereno il mio giorno. O fenestra, è sparito il tuo pregio.
De' colpi de' tori alcuni ne andavano vòti d'effetto; ma quelli degli occhi suoi tutti colpivano a segno. Pregava Amore che crescesse la rabbia a' tori, ma temperasse la forza de' guardi di Carizia. Al fin io rimasi vincitore del toro, ella vincitrice di me: ed io che vinsi perdei, e fui in un tempo vinto e vincitore, e restai nella vittoria per amore.
E se ben Callidora, la minore, fusse d'incomparabil bellezza, posta incontro al sovran paragon di bellezza, a Carizia, restava un poco piú languida, perché la maggiore avea non so che di reale e di maraviglioso. Parea che la natura avesse fatto l'estremo suo forzo in lei per serbarla per modello de tutte l'altre opere sue, per non errar piú mai.
PANIMBOLO. Che Carizia non stava di voglia, che raggionava con la madre, che ci era il padre, che venne la zia, che sopraggionse la fantesca, che come ará l'agio parlará, fará, e cose simili. Ben sapete che è un furfante e che, per esser pasteggiato e pasciuto da voi di buoni bocconi, pasce voi di bugie e di vane speranze.
DON FLAMINIO. Che dici, fratello? è vero quanto vi ho detto? Io farò il segno: fis, fis. LECCARDO. Signor don Flaminio, Carizia vi prega a disagiarvi un poco, perché sta ragionando col padre. DON FLAMINIO. Se ben è alquanto bellina, io non la teneva in tanto conto quanto voi.
CARIZIA. Orsú accetto e gradisco il vostro dono e me lo pongo in dito; e non potendo donarvi dono condegno ché nol consente la mia povertá, vi dono me stessa, ché chi dona se stessa non ha magior cosa da donare; e questo anello come cosa mia ve lo ridono in caro pegno della mia fede.
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