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Aggiornato: 9 giugno 2025
Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una le case dei contadini. Nell'albergo, dormivano ancora. Pure, sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra, vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta, un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva spazzava, in basso, la stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non viene mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva un gomito; tornai indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un vermouth nel piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito, forse essa non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto andarmene, perchè non veniva. D'un tratto odo un debole fischio, un suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno nero, bagnato d'umidit
Sedeva, lontano dal tavolo, in una sedia a bracciuoli, col mento sul petto, cogli occhi semichiusi, come in un dormiveglia. Le guance di lui le parvero, alla debole luce che la lampada riverberava, ancor più pallide del consueto: la sua fronte scavata di rughe profonde, piegavasi stanca; vedendo com'egli appressava al volto replicatamente la destra, le sembrò ch'egli vi tergesse delle lagrime.
A misura che la festa si appressava, damigella Maria pareva restringersi con Margherita, tanto da fare con essa una sola persona annuvolata e taciturna. Essa aveva fatto come colui, che vedendo pieno di crepe il muro della propria casa, s'industria di tenerlo ritto con puntelli d'ogni sorta; e tira innanzi dall'oggi al domani, finchè vi rimane sotto schiacciato. Messa in disparte l'idea d'andarne di casa al cognato; quetatasi nella promessa che l'Alemanno non avrebbe menata Bianca lontana; s'era acconciata a vivere l
Il giovane, come se non avesse dapprima compreso, o avesse voluto dubitare d'aver compreso male, ora guardava il suo interrogatore con occhio spaurito, e da tutto il suo atteggiamento, dalle labbra dischiuse, dal breve e precipitato respiro, dal trepido gesto col quale sollevava il braccio ed appressava la mano al petto, pareva che si fosse sentito improvvisamente trafiggere da una punta acutissima.
E invece mi toccò accogliere con un sorriso Giovanni, e sedere a tavola con lui, e sostenere impassibile la molestia de' suoi sguardi scrutatori; e alle sue amorevoli premurose preoccupazioni perchè non assaggiavo nulla e non parlavo, opporre un altro sorriso e uno scatto di simulata allegria. Ma l'ora si appressava, oramai.
Aveva preparato la valigia. E pareva indeciso, mortificato, quasi. Certo, egli mi voleva dire che l'ora della partenza si appressava, che occorreva che egli se ne andasse. E in quel silenzio della cameretta, quasi senza distintamente vederci, c'intendemmo: il fluido dei nostri pensieri s'incontrò. La nostra amicizia si spezzava, in quel punto e a nessuno di noi importava più dell'altro.
Da poichè nel mentre l'abate di Bansi scendeva i due gradini del soglio, ed il principe di Benevento si appressava per profferire a sua volta quel segno di divozione al sommo pontefice, un rumore si ode nell'atrio della chiesa, e ben presto si vede entrare un cavaliere coperto tutto di acciaro, col morione in testa a buffa calata che, aprendosi ardito varco fra mezzo a tanti, passa i balaustri, ascende il soglio, e giunto innanzi ad Alessandro II, sguaina il pugnale cui punta sul destro cosciale come scettro, e la visiera si alza.
Oh, che cattiveria, che cattiveria, che cattiveria disse ridendo e venendomi sempre più vicino, quasi rasente tormentare col greco e con tutti quei libracci un povero bambino! e così dicendo crollava la testa, e si appressava di più. Povero bamboccione disse d'un tratto, e mi prese con le due mani adunche per i capelli ed accostò il mio volto alle sue grosse labbra. Io impallidii.
Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una le case dei contadini. Nell'albergo dormivano ancora. Pure, sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva scopava, in basso, la stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non viene mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva, un gomito; tornai indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un wermouth nel piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito, forse ella non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto andarmene perchè non veniva. D'un tratto un debole fischio, un suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno nero, bagnato d'umidit
Ma io non lo volevo, ve lo assicuro, è stato vostro padre che mi ha stimolato; è stato lui che mi ha acceso questa febbre nell'ossa. E piegatosi a mezzo sulla seggiola, appoggiò i gomiti alla spalliera, nascondendo il volto tra le palme, piangeva di rabbia, il povero Spinello Spinelli. Madonna Fiordalisa si era alzata, e si appressava a lui con aria di compassione.
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