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E l’Aretin che rimase, tremando mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando». «Oh», diss’ io lui, «se l’altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi». Ed elli a me: «Quell’ è l’anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre, fuor del dritto amore, amica.

Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia. Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a’ piedi, e vidi due stretti, che ’l pel del capo avieno insieme misto. «Ditemi, voi che strignete i petti», diss’ io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; e poi ch’ebber li visi a me eretti,

«Certo, maestro miodiss’ io, «unquanco non vid’ io chiaro com’ io discerno l

«Spene», diss’ io, «è uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto. Da molte stelle mi vien questa luce; ma quei la distillò nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. ‘Sperino in te’, ne la sua tëodia dice, ‘color che sanno il nome tuo’: e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante. «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’ el, movendo quelle oneste piume.

«Oh!», diss’ io lui, «per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, ancor che l’altra, andando, acquisti». E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di sùbito smarrita. L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse che sedea , gridando: «, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volse».

E tu che se’ dinanzi e mi pregasti, s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta ad ogne tua question tanto che basti». «L’acqua», diss’ io, «e ’l suon de la foresta impugnan dentro a me novella fede di cosa ch’io udi’ contraria a questa». Ond’ ella: «Io dicerò come procede per sua cagion ciò ch’ammirar ti face, e purgherò la nebbia che ti fiede.

Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate ’ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane». «Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?», diss’ io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

«S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille, che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!». Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.

vegnati in voglia di trarreti avanti», diss’ io a lei, «verso questa rivera, tanto ch’io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera». Come si volge, con le piante strette a terra e intra , donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette,