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Aggiornato: 14 maggio 2025


Scrisse al Kloss, in fretta, su due piedi, col lapis, e appena gli ebbe mandato la lettera alla banca, si sentì più tranquilla, più sicura. Certo il Kloss, sarebbe corso da lei, subito!

Si era avvicinato al tavolino dov'erano ammucchiati tutti i miei lapis, le carbonelle, i pennelli, accanto ad una scatola di colori per acquarello; li esaminava attentamente. Faccio un pupazzo? E senza attendere il mio permesso, aveva intinto un pennello, sorridendo della propria arditezza, mentre prendeva un foglio di carta e se lo aggiustava dinanzi.

Questo è appena un abbozzo a tratti di lapis della figura di Currita de Albornoz, la trista eroina di Pequeñeces.

Tornato dall'Affrica fui interrogato. Non dissi nulla, mi dichiarai innocente. Mi menarono in segrete. Mi custodivano due guardie, e non mi lasciarono mai: esse mi dicevano che mi si farebbe la causa. Mi fecero soffrire la fame, traveder la mannaia, mi fecero molte sevizie, ero ammalato e non mi permisero neanche d'andare allo spedale. Poi venne il presidente Morena, e mi domandò, se quando fui arrestato in Susa avevo armi. Risposi di no. Ma avendomi egli mostrato una pistola, gli dissi, è mia. In quell'occasione cominciai a lagnarmi dei pessimi trattamenti. Il capo-guardiano invece disse male di me, inventando che volevo guardie continentali, ed altro. Ricorsi al presidente perchè m'aiutasse, e mi liberasse da tanti guai. Ma stetti sempre sulla negativa, e fu per questo che mi ricacciarono in segrete, dove soffrii più di prima. La testa mi fumava, mi sentivo avvilito: scrissi una supplica a Morena perchè venisse al carcere. Difatti venne. Io, quando fui interrogato da Scandurra su' diversi reati, avevo un lapis, e notavo tutto quello che mi si domandava. Così ero in giorno di tutti gli avvenimenti; e con questi appunti, e con qualche cosa che lessi nei giornali, formai il mio romanzo, e lo dettai al signor Morena. (Ilarit

Se dovessi riassumere Lazzari, direi, con Tommaso Grossi, ch'egli è un «orso mal leccato». Si muore di fame. Per ricordarmi di queste giornate negre, ammucchiavo le mie impressioni sui margini, sui frontispizi e sotto e sopra gli indici dei libri. Mi servivo di un moncone di lapis che tenevo nascosto tra il dorso e la legatura di un volume, il quale rimaneva con me giorno e notte.

Un giorno, Emilia lesse in un canto del tavolato i versi seguenti scritti col lapis: Ingenui figli del sentir più puro Che poco spiegate il mio dolore, Versi miei, se avverr

In ogni cantuccio vi è una parte di vita, un brano di cuore: sul muro, quel segno col lapis è la misura del bambino che ora l'oltrepassa di tutta la testa ed accanto quel ritratto, quel caro ed amato ritratto di persona morta!

Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. Che cos'è? domandò questi con aria un poco sorpresa. Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona.

Lo vedo. Giorno per giorno, come usava lei, pago la padrona affinché non disponga delle due stanze che lei occupava. Mi reco tutte le sere a visitarle, a guardarle, a sentirle. La sua biancheria, i suoi abiti, i suoi scarpini, i suoi profumi, i suoi lapis, i suoi cosmetici, sono al posto dov'erano, nel medesimo disordine, immobilizzato.

Egli strappò un foglietto da un taccuino e scrisse col lapis poche righe a un amico sulla cui devozione poteva fare assegnamento. «Sai che devo partire domattina sotto pena di essere preso e fucilato dagli Austriaci. Mia sorella» a questo punto egli ebbe un'esitazione, ma la vinse e proseguì: «e mio cognato son morti or ora di colèra in due stanze a tetto del palazzo Bollati.

Parola Del Giorno

all'albino

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