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Aggiornato: 1 giugno 2025
Eppure» l'interrompeva Luchino colla compiacenza di chi ferisce l'avversario colle armi sue stesse: eppure questo Dio si compiace di esser chiamato il Dio delle vendette».
Il conte, che non voleva continuare il duello, avendo fermo di non ammazzare l'avversario, diede allora una voce, che tosto fu riconosciuta, e dopo pochi minuti tutti i servi del Galeazzo, con torcie accese, furono intorno ai due combattenti. Quel ch'è stato è stato a buona guerra, disse il Galeazzo all'altro, e quand'anche voi persisteste a voler continuare il duello, io vi dico che rifiuterei, giacchè non siete voi quel tale che possa star contro a me; favorite dunque in mia casa, chè ci sar
Sì, amica mia, da noi dipende... Pur di non irrigidirci nel nostro orgoglio, pur di non respinger sdegnosamente l'aiuto che ci si offre... L'orgoglio, ecco l'avversario implacabile... Anch'io ho lottato con esso, ma ora, grazie al cielo, ho vinto. La Teresa sentì gelarsi il sangue. Che voleva egli dire con queste parole?
Il giovane rovescia le sue carte, le squaderna, fruga e rifruga, poi guarda titubante l'avversario, il quale, coi gomiti appuntati al tavolino e col mazzo sollevato all'altezza del naso, tira l'orecchio ad una carta ribelle.
Posti di fronte i duellanti e dato il segnale, Emilio non sentì neppure il fischio della palla, così passò essa lontana dalle orecchie di lui. Fissando bene in volto l'avversario ed abbassando lentamente la pistola, Lograve disse con accento pieno di sarcasmo: Lo schifoso mostricciuolo, caricatura di scimiotto, ha la tua vita nelle mani... e te la regala.
«Nulla fuor che tu dica a Manfredi, che il mio ultimo sospiro fu per Dio, il penultimo per lui.» «Allora possiamo cominciare.» E sguainò ognuno la spada, e prese campo per precipitarsi più impetuoso contro l'avversario.
Questo era l'aspetto della partita veduta dal lato dell'Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l'aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell'ordine sviluppato dall'apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell'equilibrio dell'offesa e della difesa, questi aumentava ad ogni passo il proprio squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa, diventava esso pure, in faccia allo schieramento dei bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile del bianco s'avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell'altro; non mancava né un solo pezzo né una sola pedina, e codesta riserva d'ambe le parti era feroce. L'Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua natural tattica di schiavo, tutta l'astuzia dell'etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine era fatto ad arte per nascondere l'agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico, i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L'alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell'alfiere. Era appunto l'alfiere ch'era stato rotto ed aggiustato dall'Americano; un filo sanguigno di ceralacca gli rigava la fronte e calando giù per la guancia, gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi; pareva un guerriero ferito che s'ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po' verso il petto con tragico abbattimento; pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sott'occhi l'avversario e aspettasse stoicamente l'offesa o la meditasse misteriosamente. Nel cervello di Tom quello era il pezzo segnato della partita; egli vedeva colla sua immaginosa ed acuta fantasia diramarsi sotto i piedi dell'alfier nero due fili, i quali, sprofondandosi nel legno del diagramma e passando sotto a tutti gli ostacoli nemici, andavano a finire come due raggi di mina ai due angoli opposti del campo bianco. Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l'arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito; ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa. Tom solo vedeva e sapeva la sua occulta cospirazione e nessun giuocatore al mondo avrebbe potuto indovinarla. Al vasto ed armonico concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea fissa: l'alfiere segnato; alla ubiquit
Il marchese era stato in gioventù uno spadaccino di prima forza, e conosceva ancora alla perfezione le finezze dell'arte, ma il Rialdi era più svelto, più risoluto, più audace e con un colpo bene assestato ferì l'avversario alla spalla destra e gli fece cader l'arma di mano.
La faccia del greco s'alterò e il sorriso beffardo che incoronava le sue labbra disparve. Tentò con un colpo disperato di disarmare l'avversario avventandogli una gran botta a mezza scimitarra. Ebbe per risposta una nuova puntata che gli lacerò la manica sfiorandogli la pelle. Non vi era più nulla da tentare.
Ma Aloise di Montalto fu questa volta assai più guardingo e fece a studiar molto le parate. Il giovane cominciava a sentire dentro di sè un tal poco di pentimento per certi suoi modi, e da quel leal gentiluomo ch'egli era badò più a schermirsi che a ferire l'avversario.
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