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DON IGNAZIO. Non mi comandar questo, cara madre; ché costui, solito a far tradimenti, veggendomi disarmato, che non mi tradisca di nuovo. DON FLAMINIO. Tien mano alla lingua se vòi ch'io tenghi le mani all'armi. POLISENA. Ed è possibile che possa tanto la rabbia in voi che pur sète stati in un istesso ventre? rabbia piú convenevole a' barbari che a' vostri pari?

POLISENA. A Dio solo si dia la gloria, ché noi non siamo meritevoli di tanti favori per li nostri peccati. EUFRANONE. Moglie, va' e fa' quanto t'ho detto, ché io andrò a convitar per domani tutti i parenti e la nobiltá di Salerno. DON FLAMINIO. Io vo' far prima ogni sforzo se posso indurla ad amarmi; e quando non mi riuscirá, non mancará ricercarla per moglie.

POLISENA. Quel gentiluomo poverello che ce la chiese l'altro giorno? E che val nobiltá senza denari? avete l'esempio in noi. EUFRANONE. Non l'indovinaresti mai. POLISENA. Dimmelo, marito mio, di grazia: non mi far cosí struggere di desiderio. EUFRANONE. Non vo' farti piú penare. Con don Ignazio di Mendozza. POLISENA. Quel nipote del viceré della provincia, che combatté quel giorno con i tori?

DON RODORIGO. Ferma, don Ignazio! ferma, don Flaminio! Oh che confusione di sdegno e di furore, oh che misero spettacolo d'un abbattimento di doi fratelli! POLISENA. Fermate, cavalieri! fermate, fratelli! e non fate che lo sdegno passi insin al sangue.

DON FLAMINIO. E s'egli prima non lascia la sua io non lasciarò la mia. POLISENA. Io sto in mezzo ad ambidoi, e l'uno non può ferir l'altro se non ferisce prima me, e la spada passando per lo mio corpo facci strada all'altrui sangue. Ma a chi prima di voi mi volgerò, carissimi miei generi, carissimi miei figliuoli?

Elena fu moglie de' re Menelao di Grecia, la quale fu tolta per Paris figliuolo del re Priamo di Troia, per cui finalmente la detta terra per li Greci deserta rimase. ¶ Achille fu figliuolo de' re Peleo d'Atilia, detta Civita di Creti, il quale, essendo a Troia nell'oste de' Greci con certi compagni per fare alcuna pace della morte d'Ettore, da quei dentro fu falsamente fidato, dovendo torre Polisena figliuola de' re Priamo, di cui egli era vago, per moglie, e dare Andromaca, cioè la moglie ch'era stata d'Ettore, a Pirro suo figliuolo.

DON IGNAZIO. O Dio, è questa l'ombra sua o qualche spirito ha preso la sua stanza? POLISENA. Toccala e vedi si è ombra o spirito. DON IGNAZIO. O don Ignazio, sei vivo o morto? e se sei vivo, sogni o vaneggi? e se vaneggi, per lo soverchio desiderio ti par di vederla?

POLISENA. Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello? DON IGNAZIO. Egli, senza averlo giamai offeso, tradendomi, mi ha tolto il mio core che era la Carizia; la qual essendo morta, son certo che mai morirá nel mio core quella imagine che prima Amor vi scolpí di sua mano, spero vederla piú in questo mondo se non vestita di bella luce innanzi a Dio.

POLISENA. Ma non per noi. EUFRANONE. Perché no? POLISENA. Perché siamo cosí avezzi alle sciagure che, volendoci favorir la fortuna, non trovarebbe la via. EUFRANONE. Abbiam maritata Carizia. POLISENA. Eh, e con chi? con quel dottor della necessitá, nostro vicino? EUFRANONE. Con un meglior del dottore. POLISENA. Con quel capitan Martebellonio bugiardo vantatore? EUFRANONE Con un gentiluomo.

DON IGNAZIO. O madre, cavami fuor delle porte della morte, dimmelo certamente se è viva; perché ella sará mia, ancorché voglia o non voglia tutto il mondo. POLISENA. Ed ella piú tosto vol esser vostra che sua, e per non esser d'altri volea esser piú tosto della morte. DON IGNAZIO. Donque gli occhi miei vedranno un'altra volta Carizia, e aran pur lieto fine le mie disperate speranze?