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LECCARDO.... è morta, e morta disonorata! DON FLAMINIO. O Dio, che nuova è questa che tu mi dái? LECCARDO. E mi dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse ad Eufranone.

POLISENA. O Iddio, che mai vien meno a chi pone in te solo le sue speranze? Ella si è sempre raccomandata a te, e tu li hai esaudite le sue preghiere, rimunerata la sua bontá e l'ubidienza estraordinaria che porta al suo padre e sua madre. EUFRANONE. Ho tanto giubilo al core che mi trae di me stesso.

POLISENA. Vorrei dir molto delle sue buone qualitá che voi non sapete; ma le lacrime di tenerezza non me lo lasciano esprimere. EUFRANONE. Va' e poni lei e la casa in ordine. POLISENA. E con che la ponemo in ordine? EUFRANONE. Ecco genti cariche di robbe. Ho per fermo che le mandi don Ignazio: conosco il suo cameriero.

DON IGNAZIO. Eufranone, mio padre, vi prego a darlami con vostro consenso, ché non mi fate far qualche pazzia. Non mi sforzate a far quello per forza che me si deve per debito d'amore. A pena posso contenermi ne' termini dell'onestá: son risoluto averla per moglie, ancorché fusse sicuro perder la robba, la vita e l'onore, per non dir piú.

DON FLAMINIO. Io non mi dispero della vittoria. PANIMBOLO. Andiamo al fratello, acciò non prenda suspetto di noi e gli ordini presi non si disordenino. DON FLAMINIO. Andiamo. EUFRANONE solo.

Prego la vostra bontá, ché sovra di me pigliate la vendetta della morte di vostra figliuola e dell'offesa dell'onor vostro. EUFRANONE. Oimè, che le vostre parole m'hanno passato l'anima: voi avete ucciso lei, me e la madre in un colpo, e uccisi nel corpo e nell'onore!

DON IGNAZIO. La vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che figlia! quella ch'amava piú che l'anima sua, a cui se è pesata la morte, assai piú pesará il modo della sua morte. DON FLAMINIO. Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar in voi, e li restituirò la fama come posso. DON IGNAZIO. Ecco che giunge.

DON IGNAZIO. Non ho detto per farvi ingiuria, ché non conviene ad un mio pari voi la meritate: ve la chiedo per legittima moglie, se conoscete che ne sia degno. EUFRANONE. Essendo voi cosí ricco e di gran legnaggio, non convien burlar un povero gentiluomo e vostro servidore.

DON IGNAZIO. Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene! EUFRANONE. Questa speranza ho in lui. DON IGNAZIO. Come state? EUFRANONE. Non posso star bene essendo cosí povero come sono. DON IGNAZIO. Servitivi della mia robba, ché è il maggior servigio che far mi possiate. Copritevi. EUFRANONE. È mio debito star cosí. DON IGNAZIO. Usate meco troppe cerimonie. EUFRANONE. Perché mi sète signore.

EUFRANONE. Fui padre d'una e, se mi è lecito dir, onestissima figlia; e i vostri nepoti per particulari interessi me l'han uccisa e infamata. DON RODORIGO. Quando il reo è di gran merito si procede alla sentenza con piú riguardo. EUFRANONE. La morte e innocenza di mia figlia gridano dinanzi al tribunal di Dio giustizia contro i vostri nepoti, ché non restino invendicate.