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Aggiornato: 21 giugno 2025


GHERARDO. Come «grossa»? Se gli è cotesto, tientela; ch'io, per me, non la voglio. VIRGINIO. Oh! oh! Io dico che gli è fatta giá una donna. O maestro, io non v'ho ancor baciato. PEDANTE. Padrone, io non dico per vantarmi; ma io ho fatto per il vostro figliuolo... so ben io. E n'ho avuta cagione, ch'io non lo richiesi mai di cosa che subito egli non s'inchinasse a farla.

Tacerò fin che di nuovo gli parli. GHERARDO vecchio, SPELA suo servo e CLEMENZIA balia. GHERARDO. Se Virginio fa quanto m'ha promesso, io mi vo' dare il piú bel tempo ch'uom di Modena. Che ne dici, Spela? Non farò bene?

E siccome dal rame ebbe il nome d'«erario» l'antica tesoreria romana, cosí le pene costituite dalle leggi a certi misfatti si esprimevano in libbre di rame grave, come Livio nel quinto della prima deca narra, d'Aulo Virginio e Quinto Pomponio tribuni della plebe, che «pessimo exemplo innoxii decem millibus gravis aeris damnati sunt». E lo stesso narra che, l'anno 549 dall'edificazione di Roma, avendo determinato la prima volta di dar paga a' soldati, e perciò imposto un tributo al popolo contro il parere e consenso de' tribuni della plebe, i senatori, per muovere con l'esempio gli altri, mandarono i primi all'erario la loro porzione; «et quia segue nondum argentum signatum erat, aes grave plaustris quidam ad aerarium convehentes speciosam etiam collationem faciebant».

Io ho giá bevuto tre volte e ho detto una. Io non mi partirò di cucina, ch'io assaggiarò ciò che v'è; e poi dormirò intorno a quel buon fuoco. E cancar venga a chi vuol far robba! AGIATO. Ricordati, Frulla, che tu me n'hai fatte troppo e, un , ci spezzarem la testa; e bene. FRULLA. A tua posta. Non posso piú presto che ora. VIRGINIO vecchio e CLEMENZIA balia.

VIRGINIO. Che hai mangiato? STRAGUALCIA. Un par di starne, sei tordi, un cappone, un poca di vitella; e bevuto due boccali solamente. VIRGINIO. Frulla, dágli ciò che vuole; e lascia pagare a me. PEDANTE. Or che vuoi? STRAGUALCIA. Vi bacios las manos. A questo modo son fatti i padroni, maestro! Messer Pietro, voi sète troppo misero e volete ogni cosa per voi. Sapete da quanti v'è stato detto.

CLEMENZIA. Ed un'altra cosa m'è avvenuta, che anco di questo non so che me ne indovinare: ben ch'el mio confessore mi dica ch'io fo male a por mente a queste cose e dar fede alli augúri. VIRGINIO. Che fai, che tu parli cosí drento a te? Egli ha pur passata la befania. CLEMENZIA. Oh! Buon , Virginio. Se Dio m'aiuti, ch'io mi venivo a stare un pezzo con voi. Ma voi vi sète levato molto per tempo.

PEDANTE. Voi avete il torto. Truffatore io? Absit. VIRGINIO. Prometto ciò che voi volete. Dove è? PEDANTE. Nell'ostaria del «Matto». GHERARDO. La cosa è fatta: i mille fiorini son giocati. Ma che mi fa a me? Pur ch'i' abbi lei, mi basta. Io son ricco d'avanzo. VIRGINIO. Andiamo, maestro, ch'io non credo veder quell'ora ch'io 'l vegghi, ch'io l'abbracci, ch'io 'l baci e lo pigli in collo.

VIRGINIO. Dimanda. STRAGUALCIA. Acconciatemi per garzon con questo oste che è il miglior compagno del mondo e 'l meglio fornito e 'l piú savio e quel che meglio intende il bisogno del forestiero che oste che mai io vedesse. Io, per me, non credo che sia altro paradiso al mondo. GHERARDO. Gli ha nome di tener molto bene. VIRGINIO. Hai tu fatto colazione? STRAGUALCIA. Un poco.

VIRGINIO. Che mirate, uomo da bene? PEDANTE. Certo, questo è il padrone. GHERARDO. Lascia mirar quel che gli piace. Debb'esser poco pratico in questa terra: ché, negli altri luochi, non si pon mente a chi mira come qui; ma si lascia mirar ognuno. PEDANTE. S'io miro, io non miro sine causa. Ditemi: conoscete voi in questa terra messer Virginio Bellenzini?

Certo, che ecco la sua balia: che mi torrá fatica di mandarla a chiamare perché accompagni in qua Lelia. CLEMENZIA balia e VIRGINIO vecchio. CLEMENZIA. Io non so quel che si vorrá indovinare che tutte le mie galline hanno fatto, questa mattina, fatto il cicalare che pareva che mi volesser metter la casa a romore o arricchirmi d'uova.

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