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Aggiornato: 21 giugno 2025
Nessuno gli deve contrastare la gloria; egli solo ha da venir ammirato nell'impero. Guai a chi vuole emergere! Feste si succedono a feste. Virginio Rufo vince Giulio Vindice il quale suicide. Novelle feste per celebrare la morte dell'audace. Ma il cielo si offusca di nuovo. Un cortigiano, il solo che ha coraggio, osa avvicinarlo e comunicargli la triste novella.
Io non ebbi mai altro padre che Virginio né altra madre che Giovanna. Voi mi parete una bestia. Che vi credete, forse, ch'io non abbi alcun per me? GHERARDO. Virginio, sai che dubito? che, per maninconia, non abbi a questa povera giovane dato volta il cervello. VIRGINIO. Trist'a me! ch'io me n'accorsi fino al principio, quando vidi che con sí poca pazienzia mi venne innanzi.
GHERARDO. Eh! Lasciate queste parole. Figliuola mia e sorella mia, non si risponde cosí al padre. FABRIZIO. Lascia andare i colombi, e' s'appaiano. Tutt'a due questi peccano d'un medesimo umore. E che bel caso! Ah! ah! ah! ah! ah! VIRGINIO. Ancor ridi? GHERARDO. Questo è un mal segno, a farsi beffe del padre. FABRIZIO. Che padre? che madre?
GHERARDO. Oimè! A questo modo son giontato io? a questo modo, eh? Misero a me! Quel traditor di Virginio, traditoraccio! m'ha pure scorto per un montone. Oh Dio! Che farò io? PASQUELLA. Che avete, padrone? GHERARDO. Che ho, ah? Chi è colui che è con mia figliuola? PASQUELLA. Oh! Nol sapete voi? non è la cítola di Virginio? GHERARDO. Cítola, eh?
GHERARDO. Fa' adunque, Virginio, se desideri in questa cosa farmi piacere, come hai detto, che quanto piú presto sia possibile si faccino queste benedette nozze; e cavami una volta di cosí intrigato laberinto nel quale non so come disavedutamente son corso. E ben cognosci tu che ormai niun di noi è piú erba di marzo, ma sí ben di maggio e forse... E quanto piú si va in lá piú si perde tempo.
Non di meno il vedermi menar d'oggi in domane e di domane nell'altro mi fa sospettar non so che; né ti cognosco io per cosí da poco che, quando vorrai, non facci far tua figliuola a tuo modo. VIRGINIO. Ti dirò. Tu sai che m'accadde l'andare a Bologna per saldar la ragione d'un traffico che aveamo insieme messer Buonaparte Ghisilieri, il cavalier da Casio ed io.
VIRGINIO. Il dico io, ché mi tocca: bench'io stesso mi feci il male, dandola a nutrire a te che sapevo chi tu eri. CLEMENZIA. Virginio, non piú parole. S'io son stata una trista, m'hai fatta tu. Sai bene che, prima che tu, non mi ebbe altri che il mio marito. Io dico che le fanciulle si voglion trattare altrimenti.
CLEMENZIA. Non può esser che non sia questo, ché par tutto Lelia. O Fabrizio, figliuol mio, che tu sia il ben tornato: che è di te? FABRIZIO. Bene, balia mia cara. Che è di Lelia? CLEMENZIA. Bene, bene. Ma entriamo in casa, ché ho da parlare a longo con tutti voi. VIRGINIO e CLEMENZIA. VIRGINIO. Io ho tanta allegrezza d'aver trovato mio figliuolo ch'io son contento d'ogni cosa.
Ma tu vuoi dir ch'io te ne desse un altro, è vero? CLEMENZIA. Cotesto è vero. VIRGINIO. Or vedi s'io so' indivino! Ma che è di Lelia, la tua allieva? CLEMENZIA. Eh! povera figliuola, quanto era meglio ch'ella non fusse mai nata! VIRGINIO. Perché? CLEMENZIA. Perché, dici, eh? Gherardo Foiani non va dicendo per tutto che gli è sua moglie e che gli è fatto ogni cosa? VIRGINIO. Dice il vero. Perché?
Se Fabrizio, un dí, si trovasse ed io avesse dato ogni cosa a costei, si morrebbe di fame; che non vorrei. Ora io la marito a Gherardo con condizione che, se Fabrizio non si truova infra quattro anni, abbi mille fiorini di dote; se ritornasse, ne abbi aver solamente dugento; e, del resto, la dota egli. CLEMENZIA. Povera figliuola! So che, se la fará a mio modo... VIRGINIO. Che n'è?
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