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PELAMATTI. So che non dici a me. PANURGO. A te dico io, a te. PELAMATTI. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh? PANURGO. Volevi tu spezzar quella porta? PELAMATTI. Ancora non ci era accostato. PANURGO. Ti toglio la fatica di battere, e par che te ne spiaccia. PELAMATTI. E se fusse tua madre, aresti tanta paura che fusse battuta?

ESSANDRO. Ecco ch'io non posso non chiamarmi vinto dal nobilissimo animo vostro. Conosco che veramente m'amate. PANURGO. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno. ALESSIO. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro. PANURGO. Tu, Alessio, sei l'istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.

MORFEO. E tu bersaglio di staffili. PANURGO. Chi ti mirasse nel collo e ne' piedi, penso che ci troverebbe un callo delle collane e di cerchietti che ci hai portati. MORFEO. Chi ti vedesse le spalle, le troverebbe di piú colori che i tapeti che vengono di Soria. PANURGO. O forche, o scale, o capestri, che fate? MORFEO. O berline, o scope, o asini, dove sète?

PANURGO. Mentre stiamo aspettando Alessio, un certo amico che ne manda le vesti a questo effetto, vuoi che te insegni a fingere quel che abbiamo a fare? MORFEO. Imparami d'altro che di fingere: questo fu mio primo essercizio. Ma ecco il servo che ti porta le vesti. PANURGO. Non viene a me, va dritto alla casa di Facio; deve essere il servo di maestro Rampino: vogliam far prova di torcele?

ESSANDRO. È venuto or ora un correo ad avisar Gerasto che Narticoforo e suo figlio se ne vengono a casa. MORFEO. O ventura maladetta, mira a che ora e a che punto son venuti costoro per disturbare il banchetto! or non poteano venir dopo pranso? ESSANDRO. Orsú, che mi consigliasti a fare? PANURGO. Tu perché avevi cosí gran voglia di farlo?

PANURGO. Se può dir mia madre, ché questa mattina, uscendone, mi ha partorito. PELAMATTI. Dio ti facci esser nato in buon ponto. Figlio di questa porta, mi sapresti dir se dentro ci fusse Facio? PANURGO. Facio ti sta innanzi e parla teco. PELAMATTI. Dunque, voi sète... PANURGO. Si, si, Facio padre di Alessio. PELAMATTI. Me l'avete tolto di bocca, che proprio volea dimandarvi se voi eravate Facio.

ESSANDRO. Parla presto, di grazia, che non passi l'ora di trovarmi con Cleria. PANURGO. Voi mi avete detto ch'eglino non si conoscono di vista. ESSANDRO. No; ma la loro amicizia è sol per lettere. PANURGO. Ascoltate, di grazia.

PANURGO. Non dice nulla. GERASTO. Parla. Che dicevi di medico? TOFANO. Dico che.... GERASTO. Che cosa «dico che»? TOFANO. Voi mi toccate il gomito; che volete da me? PANURGO. Chi ti tocca, asinaccio? TOFANO. Adesso mi tocchi il piede. Omai m'avete storpiato. PANURGO. Non si vuol partir questa bestiaccia! TOFANO. Dove volete che vada? PANURGO. Va' in buona ora!

ESSANDRO. Mi burli? hai torto straziarmi cosí. PANURGO. Voi volete che v'aiuti a dolervi, io vi aiuto: questa è cosa di poca fatica. ESSANDRO. Facciamo collegio tra noi della mia vita, e consigliamoci l'un l'altro se dobbiamo fuggircene.

Conosci tu Gerasto medico, un certo uomo da bene? MORFEO. Io non conosco niuno uomo da bene. Che ho a far io con loro? io non prattico se non con ribaldi, perché mi danno da mangiare. Ma perché non andiamo a tavola e diamo una batteria a quel tuo apparecchio? PANURGO. È troppo mattino. MORFEO. Anzi mangiando presto la mattina, ogni cosa ti riesce a proposito quel giorno.