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FLAMMINIO. Quanto ha che questo fu? PASQUELLA. Adesso, adesso, adesso. Poi mi mandorno, correndo, a dirlo a Clemenzia e a chiamarla. CLEMENZIA. Digli, Pasquella, ch'io starò poco poco a venire. Va'. LELIA. O Dio, quanto bene insieme mi dái! Io muoio d'allegrezza. PASQUELLA. Sta' poco, ché io ancora ho tanto da fare che guai a me! Voglio ire adesso a comprare certi lisci. Oh!

Cítola, che fará fare a mia figliuola de' cítoli, dolente a me! PASQUELLA. Eh! non dite coteste parolacce! Che cos'è? non è Lelia? GHERARDO. Dico che gli è un maschio. PASQUELLA. Eh, non è vero! Che ne sapete voi? GHERARDO. L'ho veduto con questi occhi. PASQUELLA. Come? GHERARDO. Adosso alla mia figliuola, trist'a me! PASQUELLA. Eh! che dovevano scherzare! GHERARDO. È ben che scherzavano.

Il piacere delle nozze fu turbato per una sentenza de' tribunali di Roma, che GABRIELLO accenna oscuramente; e che noi possiamo con maggior chiarezza descrivere. Il Poeta aveva un fratello naturale di nome Augusto, che stavasi in Roma, e maneggiava la dote di Lelia, con procura in forma legale: ora costui per avere scritto delle pasquinate, o come allora dicevano, de' pasquini, fu condannato, non sappiamo a qual pena, e i beni dati al fisco; compresavi la dote di Lelia. Per che GABRIELLO corse a Roma, e con mostrare le sue ragioni, e col favore del Cardinale Cinzio Aldobrandini, protettore de' letterati, ricoverò con fatiche e spese la dote della moglie. Augusto aveva potuto scampare la tempesta fuggendo nell'Abruzzo; e di col

La vostra troppa bellezza e 'l troppo amar ch'io vi porto è cagion ch'io fo quello che forse voi giudicarete esser di poca onesta fanciulla. Ma Dio lo sa ch'io non me ne son potuta tenere. LELIA. Non fate queste scuse con me, signora; ché so ancor io come io sto e quel che, per troppo amore, mi son messo a fare. ISABELLA. E che cosa? LELIA. Oh! Che?

FLAMMINIO. Io non posso. Va' , ch'io te ne prego. LELIA. Io andarò; ma... FLAMMINIO. Torna con la risposta, subito. Io andarò fino in duomo. LELIA. Com'io veggo el tempo, non mancarò. FLAMMINIO. Fabio, se tu fai questa cosa, buon per te! LELIA. A tempo si parte, ché ecco Pasquella che mi viene a trovare. PASQUELLA fante di Gherardo e LELIA da ragazzo detto FABIO.

SPELA. Credolo: ché, dove un altro la pagarebbe di grossi e di cinquine, e voi la pagarete di doppioni e di piccioli. GHERARDO. Ecco la sua balia. Taci, ch'io voglio astutamente domandare che è di Lelia. CLEMENZIA. Oh che bel giglio d'orto da voler moglie tenera! Credi che fusse ben condotta, quella povera figliuola, nelle man di questo vecchio rantacoso?

Ma tu vuoi dir ch'io te ne desse un altro, è vero? CLEMENZIA. Cotesto è vero. VIRGINIO. Or vedi s'io so' indivino! Ma che è di Lelia, la tua allieva? CLEMENZIA. Eh! povera figliuola, quanto era meglio ch'ella non fusse mai nata! VIRGINIO. Perché? CLEMENZIA. Perché, dici, eh? Gherardo Foiani non va dicendo per tutto che gli è sua moglie e che gli è fatto ogni cosa? VIRGINIO. Dice il vero. Perché?

E forse che 'l suo padrone non si crede che facci l'ambasciate per lui? Ma gli è, per certo, questo che viene in qua. Ventura! Fabio, Dio ti dia il buon . Vezzo mio, ti venivo a trovare. LELIA. Ed a te mille scudi, la mia Pasquella. Che fa la tua bella padrona? e che voleva da me? PASQUELLA. E che ti credi che la facci?

VIRGINIO. Con chi si pensa avere a fare? Rendemi la mia figliuola. GHERARDO. Scannarò te e lei. PEDANTE. Che cosa ha da far questo gentiluomo con esso voi? VIRGINIO. Non so, io; se non che, poco fa, gli messi Lelia mia figliuola in casa, ché la voleva per moglie. Ora voi vedete. E temo non gli facci dispiacere. PEDANTE. Ah, ah, gentiluomo! Non si vuole con l'arme! Con l'arme?

LELIA. Io non voglio pensare al mal prima che venga. Quando cotesto fusse, ci pensarei e risolvereimi. CLEMENZIA. Che dirá la gente, quando questa cosa si sappia, cattivella che tu sei? LELIA. Chi lo dirá, se non lo dici tu? CLEMENZIA. E questo perché? LELIA. Ti dirò. Flamminio, com'io ti dissi poco fa, è innamorato d'Isabella Foiani e spesso spesso mi manda a lei con lettere e con imbasciate.