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Aggiornato: 19 giugno 2025
SANTINA. Non è stata né sará mai la piú infelice femina di me per esser maritata a tal uomo! Mira a chi ho data cosí bella dote e cosí grande intrata... GERASTO. Tanto grande che la metá mi soverchieria; me ci affogo dentro. SANTINA.... e bella e profumata,... GERASTO. Puzzulente piú d'una carogna. SANTINA.... senza quello che vi vien dietro, ché me l'hai guasto e consumato.
APOLLIONE. Gerasto caro, sappiansi l'ingiurie che stimate aver ricevute da noi, accioché possiamo far le debite sodisfazioni.
NARTICOFORO. Questo vocabulo «pappalasagni» non l'ho osservato né in Spicilegio né in Cornucopia né in Calepino. Granchio, tu che sai di zergo e di furbesco, dimmi, che vuol dire? GRANCHIO. Che sète un grandissimo letterato! Diteme se Gerasto fusse in casa. NEPITA. Non v'è; né se vi fusse, potrebbe venir a voi, perché ha in casa certi forastieri romani.
Se tu non vuoi dirci io chi sia né costui né tu stesso, dicci almeno, chi sei di noi duo. GERASTO. Di grazia, fatene questo piacere, chi sei di noi duo? PANURGO. V'ho detto dieci volte ch'io son io e voi sète voi, né io posso essere alcun di voi. NARTICOFORO. Oh, non posso far rispondere costui ad petita!
GERASTO. Certo ch'io non lo stimava cosí difforme, che non l'arei fatto venire e, se posso con onor mio, lo farò tornare a dietro. GRANCHIO servo, GERASTO, ESSANDRO. GRANCHIO. Questo è il largo che m'è stato mostrato, questo è il tempio, questa deve esser sua casa. GERASTO. Giovane, che vai cercando tu? GRANCHIO. Un che non ho ritrovato ancora.
GERASTO. Oh, come sei divenuta pallida! che ti duole? ESSANDRO. Oimè, il cuore! GERASTO. E come sará maritata, mariterò ancora te. ESSANDRO. Mi sento morire, mi sento uscir l'anima! GERASTO. Su, dammi i baci per la buona nuova. ESSANDRO. Partetivi, di grazia: ho sentito la padrona in fenestra, e credo ne facci la spia.
NARTICOFORO. Ben, come si sta galante uomo? PANURGO. Si sta in piedi. NARTICOFORO. Sei o non sei tu? sei uno o sei alcuno? PANURGO. Io non son io né mi curo esser io, né vorrei che alcuno fusse me. GERASTO. Mira che faccia di avorio! mira che volto! PANURGO. Mi par che con questo volto possa star dinanzi ad ogni grande uomo.
GERASTO. O misero me, quando questi sassi si rompono di stracchezza, ella adesso vuol cominciare! quando finirá, se adesso comincia? in ogni modo, tu hai da star di sopra. SANTINA. Forse non son io la peggior femina trattata del mondo? GERASTO. Ti batto, forse? SANTINA. Guai a te, se avessi tanto ardire! GERASTO. Di che dunque ti lamenti?
Diceva la casa mia essere appestata, che lui era Narticoforo e ch'io non fusse Gerasto; alfin volea che Cintio non fusse figlio di Narticoforo. ESSANDRO. Voi sète Gerasto medico, eh? GERASTO. Io son; che volete per questo? ESSANDRO. Avete voi avuto rissa con un maestro di scola? GERASTO. Con uno che per tale si volea far conoscere.
PANURGO. L'ingiuria che l'ho fatta, è questa: che per far serviggio a mio figlio, allor mio padrone, prestatomi il nome di Narticoforo romano, che è questo gentiluomo, entrai in casa sua; e poi prestatomi il nome suo, mi feci conoscere a questo per Gerasto e lo scacciai dalla casa che non era mia. Che grande ingiuria è questa, ch'io ne meriti tanto castigo?
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