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Aggiornato: 19 giugno 2025


Gerasto è tutto di contrarie fattezze: che è grasso, collo corto, naso schiacciato, colorito; e per non tenerti a tedio, io son Gerasto di Guardati.

ESSANDRO. Or io vedendo che la barba tuttavia spunta fuori, come hai tu detto, non posso star piú nascosto in questo abito; e il peggio è che Gerasto, il padron vecchio, è cosí sconciamente innamorato di me che fa le pazzie. Tu lo sai: non mi incontra mai sola per la casa che alla sfuggita non mi tocchi e solletichi.

GERASTO. Fermati, che vo' darti una buona nuova. ESSANDRO. È qualche veste questa nuova che volete darmi? GERASTO. Dico, novella la piú lieta che avesti avuto giamai. ESSANDRO. Ditela, che mi sentiva prorir l'orecchia per ascoltarne alcuna. GERASTO. Son certo che te la raspará, perché ti sará grata. Ma vo' duo baci per mancia, che mi sento prorir le labra. ESSANDRO. Ditela, ché poi ve li darò.

ESSANDRO. Oimè, che bestiemma avete detta! o che galante, ricco, dotto e bel giovane che dicevate questa mattina! Questi è un ospedal di cancheri! Povera signora, che non fusse mai nata! GERASTO. Perché? ESSANDRO. Perché piú brutto mostro si potrebbe veder in terra? anima puzzolente, a cui con la sola vista non potria mover vomito? GERASTO. È ricco. ESSANDRO. Altro ci vuole.

Gentiluomini, mi sapreste dar voi nuova di Gerasto di Guardati? GERASTO. Niuno ve ne può dar piú certa nuova di me, perché io son detto. Ma che volete da me? APOLLIONE. Saper solo se in casa vostra fusse una fantesca chiamata Fioretta, che son tre anni che si partí di casa mia. GERASTO. Chi sète voi che me ne dimandate?

Ma eccola dinanzi la porta: o voi, prendetela e di peso menatela in questa camera terrena. GERASTO. Toglietela! che fate? ESSANDRO. Che volete da me infelice? chi sète voi? GERASTO. Infelice son io che muoio di rabbia per amor tuo. ESSANDRO. In che t'ho offeso? GERASTO. Non meritava la conscienza che ho in te, che mi avessi cosí ingannato.

NARTICOFORO. Io suspico certo che tu sarai entrato dentro qualche diversorio e ti arai ingurgitato qualche anfora, medimno o congio di liquor di Bacco; e cosí semisepolto nel sonno, ti sará apparso questo strano fantasma d'essere stato in casa di Gerasto, e in estasi gli facesti l'ambasciata e ancor nel somno parli meco.

GERASTO. Della mia; e se ben è vecchio, è di forza piú d'un giovane. ESSANDRO. Di che fattezze? GERASTO. Come le mie: io e quello siamo come una cosa medema. Conoscilo adesso? ESSANDRO. A questo marito gli sono serva indegna. GERASTO. O come mi terrei felice se queste parole ti uscissero dal core! ESSANDRO. Fa' prova di questa mia volontá.

APOLLIONE. Sia benedetto Iddio che ci ha fatto giungere a tempo di remediarci! Orsú, Gerasto caro, l'indegno atto e l'offesa che ha usata contro te, n'è stato cagione amore; ché ben sapete che amore e ragione mai potero apparentare insieme, e la legge d'amore è romper tutte le leggi e non servar legge ad alcuno.

PANURGO. Ignoro per qual infausto numine gli venne nelle fauci un'angina e nella bocca quello apostèma, onde gli ha corrotto il fiato e toltogli la facoltá di poter ben alloquere. GERASTO. Facciamogli tagliar quello apostèma, che qui in Napoli abbiamo valenti uomini che lo san fare. MORFEO. Non è ma... matura, è acerba. Il vostro naso in... inco... inco... incomincia a sentir la puzza.

Parola Del Giorno

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