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Aggiornato: 18 giugno 2025
Dopo un lungo silenzio egli riprendeva a parlare con questo sogno: Elisenda, odi; vorrei che tu fossi una caleide ed io un altro vago e tenue insetto, e che avessimo per padiglione il calice d'un giglio, e lì vivere la corta vita nostra, al blando lume d'un'aurora mitigata dalle nivee pareti del nostro talamo, e poi morire tutti e due in quel giglio odoroso e chiuso.
Elisenda lo guardava atterrita, eppur beata, tanto era sublime quel fiero garzone in quell'atteggiamento di trionfo. Ma intanto la fiamma sconvolta divorava il cero e mordeva il dito d'Estebano. Quando il pesante candelabro fu ricollocato sul suo piedistallo, della torcia non rimaneva più che un mezzo pollice appena; le lettere H e I della sigla erano dileguate.
La grave melodia faceva risonar l'oratorio; i turiboli appesi, allo scoppio delle forti note, oscillavano, come per accompagnarle colle loro danze. Così, sempre cantando, Elisenda aveva messo in dito ad Estebano un anello d'onice, e, sempre cantando, Estebano s'era levato e avea steso il pugno nell'ombra dietro l'altare e l'avea ritratto armato da una immensa spada.
Le sue parole s'estinsero in questo mormorio cadenzato; poscia egli s'avvinse ad Elisenda e la baciò sulla bocca, e l'abbracciamento fu stretto e il bacio fu lungo; ma la loro posa rimaneva innocente come quella della cuna ed immobile come quella della tomba. La pupilla d'Elisenda s'alzava lenta, cerulea, simile a un'alba di luna.
Elisenda riandava colla memoria le ultime parole di Don Sancio, e tentava invano afferrarne il recondito senso; e pensando favellava come in sogno: Le anime de' tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel serafico cero... Finché quel cero sar
Estebano ed Elisenda levavano in su gli occhi e il mento; la nascente lanugine delle guancie d'Estebano toccava la guancia d'Elisenda come l'ermellino ducale tocca il velluto principesco. Gli sguardi dei due giovanetti adagiati erano fissi sulle faccette d'un grosso diamante, che folgorava più d'ogni altra gemma.
Elisenda, vedo un paese verde come un liquido prato o come un oceano tranquillo, e poi degli angioli che si baciano e nuotano coll'ali come delfini celesti! Estebano, vedo un paese viola come i colli remoti d'Andalusia, e come il manto della Vergine, e come il solco soave che sempre più si sprofonda sotto le tue palpebre.
Mia soave Elisenda, la chiamava Estebano, mentre il suo cuore batteva convulso come l'ali d'una farfalla trafitta da uno spillo; poi continuava: Posa, posa la tua bianca mano sulla mia fronte e penserò dei poemi! ed Elisenda posava la mano sulla fronte d'Estebano.
Allora Elisenda gli si pose d'accosto, chinò la guancia verso le sue labbra: una lunga perla pendeva dall'orecchio della fanciulla; Estebano baciò quella perla, poi disse: Sei bella, o mia regina! Essa rispose: Sei bello, mio re! E l'amore incominciò le sue note.
Poi che si tacquero, egli, ritto in piedi, col braccio alzato, colla punta della spada tesa sul messale aperto, pronunciò questo giuramento: Io, Don Estebano, principe di Castiglia, duca di Salamanca e di Zamora, giuro sulla sacrata croce vera di Cristo, sull'evangelio e su questa lama d'Alfonso VIII d'Aragona, giuro d'essere sposo in terra ed in cielo alla principessa Donna Elisenda di Leon, marchesa di Valadolid, contessa d'Asturia, mia eccelsa cugina.
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