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Estebano ed Elisenda levavano in su gli occhi e il mento; la nascente lanugine delle guancie d'Estebano toccava la guancia d'Elisenda come l'ermellino ducale tocca il velluto principesco. Gli sguardi dei due giovanetti adagiati erano fissi sulle faccette d'un grosso diamante, che folgorava più d'ogni altra gemma.

Elisenda, vedo un paese verde come un liquido prato o come un oceano tranquillo, e poi degli angioli che si baciano e nuotano coll'ali come delfini celesti! Estebano, vedo un paese viola come i colli remoti d'Andalusia, e come il manto della Vergine, e come il solco soave che sempre più si sprofonda sotto le tue palpebre.

Ed Estebano rispondeva con voce bassa e tranquilla: , e i volti avvicinavansi ed allungavansi le labbra; poi baciavansi col bacio religioso e casto che si agli amuleti. E continuavano: Amiamoci più delle rondini e più dei cigni e più dei puledri d'Asturia che vanne a due a due per le ville castigliane avvinti alle carrozze dei re.

Una religione possente e una stirpe trionfale esalavano l'anima nel crepitio di quel cero. Quel cero soffriva la rabbiosa angoscia del reprobo; le sue convulsioni affrettavano la sua fine. Una luce fredda, verdastra, inquieta vagava nella cappella e rendeva penosa ad Estebano la lettura dell'anathema mezzo arso, macchiato, irto d'intralciatissime cifre. Estebano!

Gli ultimi fili del lucignolo caddero nel lago di cera liquefatta, ma non si spensero. Estebano si chinò sulla fanciulla moribonda, concentrò in un impeto solo tutte le forze degli occhi e del pensiero; il fumo del lucignolo lo attossicava, un'acre angoscia gli salia nella gola.

Ma non vedi, Estebano, com'è tutto chiuso e non senti com'è tutto odoroso anche questo asilo di pace? Ciò che dicevano quei due fanciulli erano parole e parevano canti. Elisenda ripigliava: Ho dei sogni così gonfi e delle chimere così turbolente nel cuore che, per farnele uscire, mi bisognerebbe infrangerlo.

La fanciulla tremava, ma non di paura, e come Estebano la vide così tremebonda, la raccolse tutta sul petto e la baciò sulla fronte.

A fermare col pensiero la tenuissima gradazione ideale che esisteva fra le fattezze e le anime di quei due cugini, simigliantisi come due fratelli, non troviamo altra imagine fuor che questa: Estebano era un fiore vivace con un profumo gentile; Elisenda era un fiore gentile con un profumo vivace.

Poi che si tacquero, egli, ritto in piedi, col braccio alzato, colla punta della spada tesa sul messale aperto, pronunciò questo giuramento: Io, Don Estebano, principe di Castiglia, duca di Salamanca e di Zamora, giuro sulla sacrata croce vera di Cristo, sull'evangelio e su questa lama d'Alfonso VIII d'Aragona, giuro d'essere sposo in terra ed in cielo alla principessa Donna Elisenda di Leon, marchesa di Valadolid, contessa d'Asturia, mia eccelsa cugina.

La fiammella scemava, scemava, e più che scemava, più diventava serena... A un tratto apparvero chiare queste parole sulla pergamena: Ho sulla cima il mele E in fondo il veleno dell'Upas. La fiamma si spense. L'orologio di legno batté tre colpi spaventosi. Estebano cadde. Brillava ancora sul fumido lucignolo un'ultima brage. Era l'occhio sanguigno delle tenebre.