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Ciò detto, e data la voce per la partenza, si mise a sedere sulla sua barca, in una profonda concentrazione. Alla punta della Cavagnola, cominciando i crepuscoli, il vento si cambiò d'improvviso. Allora tutte le vele essendo state spiegate, parvero torme d'augelli giganti che senza posa, agitando le grandi ali, s'affrettassero alla meta.

Foscolo Odi allora un sogno ch'io feci quando piú contro me infierivano i pedanti gabbati dalla mia Chioma di Berenice. La rupe di Mènnone, onde io avevo ragionato nelle chiose, m'apparve fra le tenebre, e mi disse: «Poeta, io mi levo sul deserto, sola, immobile, gelida nel basalto negro. Si abbattono su me stormi d'augelli, e non vi annidano: nugoli di germi, e non vi allignano: scrosci di piogge, e non mi corrodono. Le genti additano da lungi la mia aridit

Sorge fra tanto oltre ai terreni alberghi Co' crepuscoli al piè la notte amica; E di mille colori ornati e cinti Le si sveglian sul capo astri e pianeti. Malinconica e muta ella riguarda Ai rei travagli de la terra, e spira Le brezze ai fiori, ed ai mortali il sonno. Salve, o splendida notte, inclita madre Di dolcissima quiete, o che ti piaccia Covrir d'ombre pietose amor furtivo, O svelar tutta a uman guardo l'audace Visïone degli astri e l'universa Armonia, che ne fura invido il sole. Da le cupe foreste, ove si aggira Il signor de' miei canti, io chiamo indarno La bellezza dei tuoi Soli e le gemme Dei tuo' cento diademi: a Lui non uno Splende dei raggi tuoi; sol dentro al petto Gli arde la luce de le sue speranze. In compagnia de' suoi fantasmi, a pena Ei de l'ombre s'accorse; e, vòlto il passo Fuor del dritto sentiero, a una deserta Arida balza d'ogni vita priva Era intanto venuto. Irte d'intorno, Come a guardia del loco orrido e scuro, Rupi e monti s'ergean squallidi a guisa Di biancicanti scheletri; fuggía L'ingrato aspetto e s'ascondea la luna Fra le nubi correnti, e imprigionato, Come chiuso leon che tenti un varco, Tra l'aspre rocce ruggía rauco il vento. Ivi l'Eroe si assise. Un'insüeta Punta di fame gli mordea le parche Viscere, e dentro al seno arido e stanco Una brama di vive acque e d'aperto Aere e di luce gli serpea. Sgomento Non però n'ebbe al cor; ma con superbo Animo accolse la terribil prova, Poichè gli è grato comportar travagli Pari a ogni altro vivente, a cui l'amica Forza del pane il mortal corpo allena. Vago di nuovi casi, occhio ei non piega Ad alïar di lusinghevol sonno Da la tacita e grave aere cadente; Ma nel caro pensier volge le prove Dei suoi buoni mortali, e traforate Alpi vagheggia e aperti istmi e volgenti Per lo seno del mar parlanti elettri. Su per l'aride rocce ode in quel punto Come un confuso affaccendarsi e rotto Fruscío di penne e sibilar, che agguaglia Suon che mandi uman labbro e noto segno Di cacciator, quando tra' folti grani, Di cui mareggia interminato il campo, Modula il fischio a ravvïar l'amico. Ma voci eran d'augelli, a cui concessa È una strana virtù: fischiano al vento Siccome uomini veri, e illudon l'alma Di qualche afflitto pellegrin, che, pèrso Ogni spirto di lena e abbandonato D'ogni raggio di speme e di salute, Su l'inospite landa il corpo gitta. Ben al grido fallace a mala pena Sul digiun ventre ei talor sorge; a l'aura Tutta la fuggitiva anima intende, E forse in quel momento al cor gli torna Il dolce aere natío, l'abbandonata Casa paterna e de la madre il pianto. Sorge, aspetta, ricade, si strascina Delirando fra' sassi; a un grido estremo Schiude l'aride labbra, un rauco suono Gli geme entro la gola; adugna e morde L'avara terra; e il ciel rigido intanto Sovra il capo di lui splende e sorride. Così a le disperate anime insulta La beffarda natura! Al suon fallace Sorse l'Eroe, stette in forse. Or tutto Convien, diss'ei, che il mio vigor s'adopri; Arida e morta è questa valle, e segno Di salute non ha; vadasi. E preso L'aspro sentier, non pria l'orme contenne, Che un ampio fiume e la foresta attinse. Chiare e sonanti dirompeano l'acque Fra due tra loro opposti e coronati Di negra selva smisurati monti, Al cui piè si stendea facile e molle D'erbe infinite ed odorose il piano. Piomba il fiume da l'alto, e se tu il miri Biancheggiar da la lunge al cheto sguardo Dei radïanti plenilunî, un'ampia Vela il dirai, che il marinar su' negri Aprici scogli a rasciugar distese; Ma se più ti fai presso, un fragor cupo D'immense acque tu senti; al ciel, conversa In polve minutissima, tu vedi Balzar la ripercossa onda, e in un velo Confonder gli astri ed annebbiar la valle. Quivi l'Eroe non si appressò; ma in parte, Ove men cupe si schiudean le sponde, E avean meno di bosco ombre e paure, La fresca linfa disïando, scese Per la lubrica china; insinuössi Fra' canniferi greti, e ne le cave Palme attingendo i prezïosi umori Ricrëò l'arso petto; ambe ne l'onda Con giocondo piacer le braccia infuse, E battendo le pure acque, più volte Ne spruzzò, ristorando, il volto e il crine. Ma non pria lasciò l'onda, e si rïebbe Del cammin tanto e de l'ingrata arsura, Che un vicino il percosse ululo e un lungo Scoppio di strida e di commosse voci Varie, acute, incessanti. Ad improvvisi Urti crollavan bruscamente i rami De la selva vicina, e quindi e quinci Confusamente saltavan strillando Le aggredite bertucce. Il piè ritrasse Dal margo sdrucciolevole, e a la sponda Lucifero balzò; lo sguardo in giro Mosse esplorando: tenebroso intorno L'aere gemea, mentre due roggi, acuti Punti fendean, come infocati dardi, Sinistramente de la notte il seno. Muti muti pe'l negro aere procedono Or cheti e lenti, or saltellanti e rapidi; Or tra cespugli del sentier s'involano, Or più vicini e più funesti appaiono. Sta Lucifero intento; e, certo omai Che insidiosamente a lui si appressa Il terribil giaguaro (un'omicida Belva, che, a par del tigre agile e grande, Salta agli alberi in cima e a l'onde in seno, E boschi e fiumi d'ogni strage infesta) Tenea l'anima accorta in due sospesa: O che indietro si tragga e si nasconda Nel contiguo canneto; o su l'aperto Sentier l'orrida belva aspetti al passo. Senno miglior questo gli parve; e, tutta Con alato pensier l'alma percorsa E con subito sguardo il loco intorno, A la lotta si accinse. Era in quel punto Tra' fitti rami penetrato un fioco Raggio di luna. Un aspro, arduo macigno, Ivi a caso giacea: dai circostanti Gioghi a valle caduto, una regale Possa parea, cui da' superbi troni Una vendetta popolar sconfisse. A lui corse l'Eroe; con ambe mani L'afferrò, lo levò: le ferree braccia Sovra il capo distese; un dietro a l'altro Pontò i validi piedi, e tal si tenne L'irto mostro aspettando. Orrido un grido Manda la belva, e caccia fuor dagli occhi Sanguinosi baleni: a terra il bianco Ventre ingordo distende; i fulvi arruffa Peli del dorso, e di serpente a guisa Strisciando si divincola. Qual suole Paziente pescador, che, intento a l'amo, Entro a le trasparenti acque del lago Vede a un tratto guizzar cefalo o trota, Quanto più può su' nereggianti sassi Fermo, senza respir tiensi; l'avvezza Destra, che regge la pieghevol canna, Serra validamente, e, vista appena Pullular l'onda e tendersi la lenza, Fuor, con subita stratta, a l'aere avversa Trae, guizzante ne l'amo, argenteo il pesce; Così tutt'occhi e senza voce o moto L'astuto Eroe l'orrenda belva aspetta, Che con feroce voluttade allungasi Su l'erboso sentier, vibra l'accorto Sguardo, e sbuffa così che par che rida. Ma quand'ei stanco d'aspettar l'assalto Tentò un passo impaziente, e scagliar finse L'elevato macigno, urlò, ritrassesi, Il corpo agglomerò, sul ventre osceno Strisciò a ritroso il mostro irto, e qual dardo Si vibrò. Mugulare odi a l'intorno La valle ampia e tremare arbori e rupi, Non però il petto de l'Eroe: di tutto Polso ei sostien l'ampio macigno; al fiero Assalitor fermo l'oppone, e al petto Gliel d

Giacea la bella vigna fiammeggiando con tralci di rubino e foglie d'oro; e uno stuolo d'augelli roteando facea ne 'l mezzo de la vigna un coro, O madonna Isaotta, ecco la vita! io le gridai, con l'anima rapita. Ed in alto gridò lo stuol canoro. Io la trassi a quel loco: ella più lesta venìa, chè forte io la tenea per mano.

E ci vedrai d'augelli piú membra; e piú animali scorticati; e pelle e grassi e sangui come inchiostro; unghie e capei morti. CRISAULO. Io son giá sazio. Non mi dir piú, ti prego. FILENO. Odi ancor questa. Oggi vidi stillare a una campana che è fatta appunto com'un uom che s'abbia le man miso in su' fianchi; che credetti morir di rise.