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Col permesso di scrivere, il nostro tempo penale si accumulava e si accorciava rapidamente. Qualche volta si avrebbe voluto che la giornata di diciassette ore fosse più lunga, per avere modo di prolungare la gioia del lavoro. C'era tra noi la gara degli operai a cottimo. Ci si alzava e ciascuno andava al proprio posto. Chiesi e Federici avevano un tavolo nello spazio in fondo, a fianco della finestra. Il primo scriveva dalla mattina alla sera, senza mai smettere che all'ora dei pasti o quando aveva bisogno di stiracchiarsi le braccia, appendendosi al bastone più alto dell'inferriata. Senza i libri necessari per un'opera descrittiva, o storica, o politica, egli si era votato interamente al romanzo un lavoro, da quello che vedevo, che non gli costava che la fatica manuale. Non è mai a secco di idee di scene. Dotato di un apparecchio digestivo che non gli annoia il cervello, e arciricco di vocaboli, egli poteva prendere la penna ad ogni minuto, digiuno o col boccone in bocca, quando pioveva a diluvio e quando il sole si riversava nella nostra camerata come un'allegria. Alla mattina riprendeva il filo del racconto senza neppure degnarsi di leggere l'ultima frase e, dopo la colazione, il passeggio e il pranzo, ricominciava come se non vi fosse stata interruzione. Il Sue si popolava il tavolo, sul quale scriveva, di pupazzi per tenere a mente i personaggi che gli nascevano a mano a mano che entrava nella intimit

E perchè il suo cuore era libero e non annebbiato il cervello, quello spettacolo finiva sempre per umiliarlo. Gli uomini non gli parevano se non ciò che erano davvero in quel momento: marionette. Le mani agili di Gioconda tenevano i fili di almeno venti di quei pupazzi; di cinque o sei, i fili eran tra le mani di Vittorina.

Egli ruminava codesto, contemplando in S. Pietro la statua di Giove umiliata a rappresentare il principe degli apostoli. Il rumore di due grucce risuonando sulle lastre di marmo della chiesa gli fece volger la testa. Riconobbe il colonnello Colini, in compagnia di don Gabriele, l'ex-attore dei pupazzi e di un gesuita francese chiamato il P. Buzelin. Parlarono di arte, di religione, di politica.

Bruno aspettava egli pure, soffiando sui vetri e disegnando pupazzi col ditino nel velo del fiato; ma ciò non bastava a divertirlo. Finalmente Fabiano aveva avuto una buona idea ed era partito col figlio per una citt

Mettendo piede sul bel lastricato di Napoli, al Largo del Castello, una cosa colpì l'ex-giocoliere di pupazzi. Ma, ritorniamo un passo indietro. Il dottor Bruto, fulminato dalla morte terribile della sua fidanzata nel boudoir della regina Urraca, aveva fatto giuramento di non ammogliarsi. Aveva poi violato quel giuramento per una vecchia di sessant'anni, la marchesa di Tregle.

Da prima i romani non compresero le arguzie del gergo napolitano, ciò che desolava don Gabriele non vedendo il suo spirito gustato, poi la polizia del papa trovò che doveva esser il monaco a bastonare il marito geloso e metterlo alla porta e non il contrario. Smise il teatrino ambulante. Visitò chiese e taverne. Si mise a fare una corte platonica alle trasteverine ed a dare la berta alla gente del ghetto. Nulla valse. La flirtation alle trasteverine gli attirò busse da un canonico di S. Giovanni. La nostalgia dei pupazzi lo riprese. Il marchese ebbe piet

Le parole del padre Buzelin, a Roma, risuonavano al suo orecchio come un'accusa. I pupazzi gli facevano oramai orrore: l'incanto d'ieri si cangiava in rimorso che non si assopirebbe mai più. Ei corse la citt

Don Gabriele aveva la nostalgia dei suoi pupazzi. Egli aveva provato di far gustare ai romani il suo teatrino ambulante che dava il farnetico ai napoletani, ma non aveva avuto alcun successo. Aveva quindi preso Roma in uggia.

E annunziò: La signora è chiamata al telefono Chi è? chiese Nicla, scuotendosi. Il signore. Aspettami! disse Nicla a Bruno. Bruno aspettò con la fronte appoggiata ai cristalli d'una finestra, pensoso, come quando, piccino, soffiava sui vetri e disegnava pupazzi col dito nel velo del fiato. Nicla tornò. È mio marito, disse, che mi avverte che verr

E scorse il giovane per bene; ma che giovane!... Era uno di quei pupazzi che si vedono nei figurini di mode; roseo in volto, con un sorriso insipido venuto dall'abitudine di servire; i capelli abbondantemente impomatati eran lucidi e grassi; due baffi arricciati col ferro caldo gli ornavano il labbro superiore.