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Erano state lunghe, eterne quelle ore dei tre giorni, io le aveva vedute avanzare pigre e stanche, ma le ore dell'ultima notte, chiamate invano, supplicate invano, non venivano. Lei doveva arrivare alle sei del mattino. Dalle otto della sera prima io agonizzava nell'impazienza. Non una lettera, non un telegramma. Non poteva farmene, non doveva farmene, avevamo stabilito così. Viaggiava lei verso me? Dove era lei in quel momento? Calcolando potevo saperlo. E se non venisse? Tutte le più alte, le più inflessibili deduzioni matematiche sono capovolte da un picciolissimo fatto. Passeggiavo, fumavo, morsicchiando la mia sigaretta, lasciando che si spegnesse, gittandola nella via, accendendone un'altra. Nella sera ad uno ad uno si spegnevano i lumi del paesello. Passò un treno alle nove; era un diretto, non fermò. Alle dieci un altro; fermò per due minuti; era l'ultimo. La stazione era il mio faro, la mia compagnia. Illuminata, mi riscaldava il cuore come un raggio di sole. Certo i due impiegati, i facchini, il capostazione dovevano essere molto stanchi, poichè smorzarono subito e se ne andarono a letto. Mi parve di rimanere solo, abbandonato, in un deserto, senza luce, senz'acqua. Rientrai in camera, tutto angustiato. Dinanzi ad una fioca stearica d'albergo, in piedi, fremendo, rilessi le sue lettere inquiete, agitate, febbricitanti, che mi davano la follia. Sarebbe venuta. Sarebbe venuta la regina di Saba nei dômi azzurri della mia fantasia. Io le tendeva le braccia, ella veniva. Poi mi mettevo a pensare se quel salottino e quella camera d'albergo erano degne di ricevere la sua persona. Piccole stanze, messe con un lusso un po' rustico, un po' cittadino. Ma come Cristo, vi erano tutte le stazioni della Passione. Gliele avrei fatte vedere: Vedi, qui ho pianto, pensando che tu non saresti venuta. Qui ho sperato che questo calice mi sarebbe risparmiato. Qui ho agonizzato nel dubbio della mia fatale Getsemani. Qui ho singhiozzato credendomi tradito da te. Qui ho disperato, credendo che non saresti più venuta. Questo è stata la mia tomba per tre giorni. E qui, qui, amore mio immenso, sono risorto. E pieno di una esaltazione, uscivo sul terrazzo a gesticolare, come un lungo burrattino preso da pazzia. Forse non sarebbe venuta. Mi sedetti in un angolo, appoggiando le braccia sul muretto, e il capo sulle braccia. Ma non dormivo, no. La boccettina del cloralio era quasi vuota sulla mia tavola. La vuotai. Mi distesi sul letto per dormire. Non dormivo. Presi un libro: le massime di Larochefoucauld. Tristi massime, ironiche massime, piene di realt

Trecento baracche di merciaiuoli andarono capovolte; quattro olmi secolari, urtati da lui, si rovesciarono sradicati. Egli cozzava, rompeva, abbatteva ogni ostacolo, impiegando a tal uopo, con istinto taurino, la catapulta di un cranio resistente ad ogni urto. Imaginate il terrore di quella apparizione, in una folla esaltata dagli entusiasmi politici e dai fumi del vino!

dicendo, aperse loro la via attraverso una barricata di seggiole capovolte, di balocchi, di pannilini ammonticchiati, ripetendo ad ogni oggetto rimosso: Scusino, sono i ragazzi, non si può mai tenere un po' d'ordine, scusino.

Ma era scritto lassù che quando egli era lieto non lo fossero egualmente i suoi marinai. Essi avevano veduto con terrore il picco di Teneriffa vomitar fumo e fiamme. Con altrettanto terrore videro quella immensa distesa d’acque, forse la prima che navigatori vedessero, senza certezza di un lido. E un lido non si aspettavano di ritrovare laggiù, sebbene l’almirante assicurasse di doverlo ritrovare a settecento leghe oltre lo stretto di Gibilterra; s’aspettavano invece di veder sorgere dagli abissi i mostri marini che avrebbero capovolte le navi e castigati i temerarii violatori dei segreti dell’Oceano. Quante volte non fu costretto Cristoforo Colombo a chetarli, a fare il suo sermoncino cosmografico a quei rozzi marinai, tentando di persuaderli della vanit