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Certo il vignarolo sará stato ricevuto per Guglielmo e mi avrá concesso Artemisia per isposa. Lo vo' intender meglio: o Cricca, o Cricca! CRICCA. Non è in casa in piazza in loco alcuno dove soglia pratticare. PANDOLFO. Cricca, volgeti qua, non mi vedi? CRICCA. Padrone, è tanta l'allegrezza che non vi potea vedere: ho cercato ogni buco per trovarvi.

ARTEMISIA. Fosti tu dove è Guglielmo mio padre? GUGLIELMO. Dove è dunque tuo padre? ARTEMISIA. È morto e sotto l'onde sommerso. GUGLIELMO. Quel morto e sommerso son io! ARTEMISIA. Ben, io non tratto con morti e con sommersi. GUGLIELMO. Aprimi, figlia cara! ARTEMISIA. Aprir io? me ne guarderò molto bene: sento tutta incapricciarmi. GUGLIELMO. E di che?

ARTEMISIA. Che un morto e sommerso parli e venga a casa. GUGLIELMO. Apri, di grazia! ARTEMISIA. Sarai or risolto dal mare o sei putrefatto, e ne sento fin qui la puzza del tuo corpo, oibò, fiú! GUGLIELMO. Apri, ché son vivo come prima! ARTEMISIA. Come vivo, se abbiamo ragionato con tanti testimoni di veduta, quando ti sommergesti con la nave e moristi? GUGLIELMO. Deh, apri e non tante parole!

Non è cosa da valoroso voler la corona e il trionfo prima che abbia combattuto: soffriamo, ché Amor ci coronerá del nostro soffrire. ARTEMISIA. Mio padre non vuol darmivi per sposa se egli non conseguisce da voi Sulpizia: vuol comprar l'amor di vostra sorella col mio riscatto e vuole che io sia il prezzo de' suoi desidèri.

SULPIZIA. Veramente è come dite; e stimo che li medesimi travagli, che travagliano voi, travagliano ancor me: che ambedue ne affligga un medesimo male. ARTEMISIA. Misera me, che dispiacere feci a mio padre mai, che meriti che mi dia quel vecchio cadavero e putrefatto di vostro padre per marito? questo è il premio della ubidienza che li ho portata tanti anni?

EUGENIO. Voi siate il benvenuto, signor Guglielmo! GUGLIELMO. Voi ben trovato, Eugenio, mio caro figliolo! Ma perché siamo qui tutti in pronto, è ben che vengano ancora le nostre figliuole, accioché siano elleno ancor contente di quanto abbiamo a fare. PANDOLFO. Oh come dite benissimo! Eugenio, va' su e chiama Sulpizia. GUGLIELMO. E tu, Lelio, figliol mio, chiama Artemisia.

GUGLIELMO. ... Io vo' che Artemisia mia figliuola sia moglie di Eugenio vostro figliuolo; e Sulpizia vostra figliuola, avendola prima giudicata degna di me, sia moglie di Lelio mio figliuolo: l'una perché ambedue sono ne' primi fiori della loro giovanezza, l'altra perché gran tempo fra loro si sono amati modestissimamente, e non facciam cosí gran torto a' loro onestissimi amori.

SULPIZIA. Bestemmia la sua sorte crudele, i pazzi umori di suo padre, e si consuma in lamenti, in dolori. Ma Lelio, quando li parlate di me, che risponde? ARTEMISIA. Lagrime e sospiri; e credo ben che se Amor non lo aiuta in questo estremo punto, che saranno brevi i giorni suoi. SULPIZIA. Di grazia, raccomandatemi a lui. ARTEMISIA. Ed il medesmo vi prego che facciate di me al vostro.

ARTEMISIA. Anzi, se mi amate, dovete piangere meco, ché quando duo amanti piangono le communi disaventure è uno sfogamento delle lor passioni. EUGENIO. Ma perché tanto affliggervi? ARTEMISIA. Primieramente temo che non m'amate. EUGENIO. Ahi, fiera stella, e come può cadere in voi cosí brutto pensiero se sapete certo che vi amo da dovero e il nostro amore è reciproco?

Chi sei dunque? VIGNAROLO. Son Guglielmo e vo' entrare in casa mia, dar Artemisia al mio padrone e Armellina al vignarolo. CRICCA. E gli atti, il procedere e le parole mi fan ampia fede che tu sei quel vignarolo che eri prima. Non ti vergogni a dire che sei Guglielmo? VIGNAROLO. Mi vergognarei facendo cosa cattiva, ma in entrando in casa e disponendo delle mie cose non fo cosa cattiva.