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Tra la rabbia, il furore e i patimenti e l'amor pel guascone, che conserva, sentí Marfisa un scuotersi i denti, e volse il viso pallido alla serva, dicendo: Io sento ribrezzi e accidenti e una debolezza che mi snerva: mi duole il capo ed ho la bocca amara. Rispose Ipalca: Questa è febbre chiara.

Uscite, poscia ci travestiremo per non esser scoperte dalla gente; e poi nell'alba, all'aprir delle porte, schizzerem fuor della cittá alla sorte. Io voglio come maschio esser vestita: voi, come donna, siate mia mogliera. Diceva Ipalca: Trista alla mia vita! Per me farò da moglie volentiera. Ed ebbono ogni cosa stabilita, e di fuggire un sabbato da sera.

Pur ruminando, come uscir di gabbia potesse, andava, e in sta ben raccolta; ma le porte eran chiuse in diligenza, perocché la badessa avea temenza. Ipalca damigella andava spesso a visitarla, e Marfisa con quella diceva: Ipalca, a te tutto confesso: sappi ch'io sono un satanasso in cella.

Bradamante era fuor de' sentimenti, e strilla, e i servi vuol morti e le fanti, e disse della borsa fuor de' denti, tanto di borsa, grida a tutti quanti. Ipalca manca dagli alloggiamenti, adunque Ipalca ha involati i contanti. Si cerchi Ipalca Bradamante grida: se le strappi la borsa, e poi s'uccida.

E detto questo, a Ipalca si volgea, che un rotolo di carta in man portava lungo sei braccia, ch'ei dato le avea a tenere, e sul spazzo il sciorinava. Io non son menzogner, dama dicea Filinor a Marfisa, che guardava l'albero suo, ch'ei distendendo gía, e pareva un lenzuolo di Golia. Veggendo in un cantone una bacchetta, lesto la prende e comincia additare.

Il fin di matrimonio è oggetto onesto; rimorso io non mi sento in parte alcuna. Nella tua concorrenza sia ben desto ch'ella può tutto ed è molto opportuna: però se memoriali a lei darai, trenta pallotte certe conterai. Filinor, che c'è dato, non dimanda: verso Marfisa con Ipalca trotta.

Ipalca certo è differente assai, quantunque avesse un leggiadro cappello col pennacchino e abbigliamenti gai. Un membro non avea che fosse bello. Usava del belletto sempremai, ma caricato e senza alcun ingegno, donde movea, piú che lussuria, sdegno. Verso la Spagna presero il cammino queste due, finta sposa e finto sposo. Lasciamle andar; diremo il lor destino. A Parigi fu il caso strepitoso.

Or qui Marfisa lascia ogni contegno, allarga il suo tabarro, e strigne il pugno, gridando: O figlio di puttana, indegno! gli sciorina una nespola nel grugno. La maschera le cade a questo segno, la faccia ha calda piú che al sol di giugno, e gli schiaffi e i cazzotti replicando: Becco, ruffian! gridava trangosciando. Ipalca è anch'essa smascherata e grida: Ponete, Dio, la vostra santa mano.

Dal convento fuggon Marfisa e Ipalca, coll'esempio d'una filosofessa a lor talento. Ruggero a Malagigi, per far scempio, chiede ove sia la suora, ma giá spento è di mago il mestiere. I paladini dietro a Marfisa van fuor de' confini. Uom non v'è piú vil d'un malfattore, ch'abbia la coscienza maculata, e benché mostri gran core e furore, egli ha sempre paura in sen celata.

Con Ipalca Marfisa in un cantone, coperta d'un zendale, è alla vedetta, ed a' votanti mette soggezione col ventaglio e facendo la civetta. Talor con leggiadrissima invenzione apre il zendal, poi lo richiude in fretta. Ad alcun paladin si mostra altera, ad alcun sorridente e lusinghiera. Entrati nella sala Carlo Mano, prelati, paladini e cavalieri, chiuse furon le porte a mano a mano.