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Aprivamo la bocca per sorseggiare l'aria e ci auguravamo che il reclusorio fosse lontano lontano per aver tempo di sgranchirci le gambe e di rimetterci dallo sbalordimento di un vagone che chiamavamo assassino.

Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull'impiantito. Pane! Trasalimmo. Era un galeotto con la catena a parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a distribuire la pagnotta. Il pane regio come lo chiamavamo parve a tutti noi immangiabile.

Rimasi sola col mio corruccio fin verso l'ora del pranzo. Non vedendomi comparire, venne a cercarmi la Costanza, una vecchia guardarobiera, che da trent'anni vive in casa nostra. Non è donna di molto sapere, ma è fedele come un vecchio cane. Da piccini la chiamavamo la Trottola, per la sua maniera di camminare traballante, a onde. Divenuti grandi, nessuno di noi si occupò più di lei, che continua a rimanere in casa come un vecchio mobile che serve sempre a qualche cosa. Io preferisco essere servita da Julie, una svizzera tedesca che parla un cattivo francese. Costanza, via via che invecchia seguita a rintanarsi nella guardaroba, fra i cesti e i mucchi della biancheria, contenta che la sopportino, e riconoscente, di quel pane, di quel letto, di quel tetto che essa ottiene dalla carit

"Quando eravamo piccini," continuò la Falsa-Testuggine, un poco più quieta, ma sempre singhiozzando, "andavamo a scuola, al mare. La maestra era una vecchia Testuggine e noi la chiamavamo Tartaruga " "Perchè la chiamavate Tartaruga se non era tale?" domandò Alice. "La chiamavamo Tartaruga perchè c'insegnava a tartagliare," disse la Falsa-Testuggine con dispetto: "Avete poco comprendonio!"

«Nessuno, al vederci così uniti nell'affetto, nella cura comune d'un caro infermo, che entrambi chiamavamo babbo, nessuno avrebbe sospettato mai che tempesta mi fervesse nell'animo e che abisso ci separasse. «Intanto la malattia del babbo procedeva rapida, inesorabile.

Tornando a casa e rifacendo la strada fatta insieme con miss Nelly, mi sembrava di riudire, quasi ondulanti ancora per l'aria, il suono della voce e l'accento incerto con cui ella mi aveva domandato: Debbo andare? Mi rimproveravo di non essere stato sincero. Perchè non le avevo detto immediatamente: Siete libera! Io non sono in circostanza di darvi una risposta concreta? E nello stesso tempo che cominciavo a sentire una specie d'irritazione contro di lei per quella domanda intempestiva (non credevo di aver fatto niente che potesse autorizzarla a rivolgermela), provavo pure un dolce compiacimento che lusingava il mio amor proprio. Non leggevo ben chiaro nel mio cuore. Quell'anno sfarfalleggiavo irrequieto tra le tante signorine che intervenivano in casa Olgani. Ricordi? Noi chiamavamo la Fiera quei mercoledì affollatissimi, destinati dalla signora Olgani a combinare matrimoni. Ella pensava soprattutti a sua figlia gi

Nei nostri slanci d'affetto ci chiamavamo coi motti più teneri; a poco a poco i nostri stessi nomi si corruppero nelle nostre labbra in cento vezzeggiativi, e ne vennero fuori due parole bizzarre, senza senso, ma che per noi ne avevano uno dolcissimo.

Quella vecchia testuggine, sapete, con la scaglia tutta sbocconcellata, che chiamavamo Ninicchia, tanto affezionata a Mortella che la credeva perduta perché non s’era più fatta viva... La Salvestra. Ebbene? La Rondine. È ricomparsa! Mentre mi sforzavo di staccare questi tralci dal leccio del Conte, mi son sentita tirare appena appena per l’orlo della gonna come da un gattino timido.

Andavo spesso dalla cugina, come tutti la chiamavamo in famiglia, perchè ella mostrava una grande predilezione per me. Ero il vivente ritratto del nonno, secondo lei; e infatti ella mi aveva imposto il soprannome di Nonnino.

¹ Questo capitolo fu scritto prima del secondo indulto. Il Gaspare Giucchetto portava il numero di matricola 2749; il Giovanni Vedani il 2731, e l'Angelo Vanoni il 2747. Don Davide Albertario non è stato in infermeria che quattro o cinque giorni a trangugiare due o tre drastici per liberarsi da una tenia che noi chiamavamo, per ridere, un «serpente boa».