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CINTIA. È vero che senza me non areste avuta niuna dolcezza, di ciò mi dovete aver obligo alcuno, perché di quella ne ho avuto altretanta anch'io, anzi il doppio, ché ho avuto il mio e il piacer del vostro piacere. ERASTO. Orsú, narratemi i vostri amori, ché farò tutto il possibile accioché abbiate il vostro intento.

E di qui presi occasion d'entrare ne' fatti tuoi; e, per fartela breve, tanto ho saputo ben dir mal di te che, d'uomo che ci fu giá ritroso, or n'è contento e l'ha rimessa in me. Che faremo ora? FILOCRATE. E che! Va' che n'usciamo. Questo è stato ben fatto: aver disposto la cosa seco. Orsú, madre! Ora è fatta. Porgimi qui la man; ti do mia fede di non mancare; e cosí fa' tu a me.

MALFATTO. Mastro, io credo che lui non ce vorrá venire. PRUDENZIO. Fa' quello ch'io ti dico e non voler indovinare. MALFATTO. Io non indovino; ma voi vederete che lui non ce verrá. PRUDENZIO. E pur torni, temerario insolente! MALFATTO. Orsú! Vederete che sará come ho ditto noi. MASTRO ANTONIO. Oh che gran piegora questa!

ERASTO. Non moltiplichiamo in cerimonie; pregovi per quanto amor mi portate, che mi scopriate i vostri amori. CINTIA. Poiché mi giurate per cosa alla quale io non posso venir meno, io vo' narrarvi i miei amori. ERASTO. Orsú, dite. CINTIA. Gli dirò.

CLEMENZIA. Che volete ch'io vi renda? FLAMMINIO. Il mio ragazzo che s'è fuggito in casa tua. CLEMENZIA. In casa mia non vi è servidor nissun vostro; ma bene una serva. FLAMMINIO. Clemenzia, e' non è tempo da muine. Tu mi sei stata sempre amica, ed io a te; tu m'hai fatti de' piaceri, ed io a te. Or questa è cosa che troppo importa. CLEMENZIA. Qualche furia d'amor sará questa. Orsú, Flamminio!

POLINICO. Deh! deh! Orsú! Non voglio con un servo... LIDIO. Orsú! Fessenio, non piú. FESSENIO. Non minacciare: ché, benché io sia vil servo, anco la mosca ha la sua collora; e non è picciol pelo che non abbi l'ombra sua, intendi? LIDIO. Taci, Fessenio. POLINICO. Lassami seguire con Lidio, se ti piace. FESSENIO. E del buon per la pace. POLINICO. Ascolta, Lidio.

LELIA. Perché non gli mira, donque? E lasci star me che non me ne curo. PASQUELLA. Oh Dio! Gli è ben vero che i giovani non han tutto quel senno che gli bisognarebbe. LELIA. Orsú, Pasquella! Non mi predicar piú, ché tu fai peggio. PASQUELLA. Superbuzzo, superbuzzo, ti mancará questo fumo! Orsú, il mio Fabio caro, anima mia!

TRASILOGO. Questa non è paura ma avertenza di guerra per poter provedere in ogni luoco. Dammi tu questo scudo. Orsú, state in cervello, ch'io vo' dare l'assalto. Alla prima botta col piede farò andar la porta per terra, con le smosse le mura e la casa. SQUADRA. Tanta avete forza, padrone!

PANURGO. Orsú, lasciate che ritiri me stesso un poco in consiglio secreto; suoni il tamburro e chiami sotto l'insegna le trappole, gl'inganni, le finzioni, le furfantarie; facci la rassegna e metta l'essercito in rassetto, accioché diamo l'assalto a questo vecchio e lo poniamo in tanti travagli che a suo dispetto lo facciamo cadere.

Orsù, da quel che mi consta, la Compagnia inglese che ne è proprietaria non sarebbe aliena in massima dal disfarsene, e alla Sulphur Society potrebbe convenire di prenderne il posto. I negoziati devono però esser condotti con molta prudenza per non suscitar concorrenti. Ne parlerò al Consiglio appena giunto a Londra.