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Aggiornato: 9 giugno 2025
1 Che dolce più, che più giocondo stato saria di quel d'un amoroso core? che viver più felice e più beato, che ritrovarsi in servitù d'Amore? se non fosse l'uom sempre stimulato da quel sospetto rio, da quel timore, da quel martìr, da quella frenesia, da quella rabbia detta gelosia.
Ti basti il gran martìr ch'io non ci veggio, senza ch'ognor la fame mi consumi: almen discaccia le fetide arpie, che non rapiscan le vivande mie.
44 Se l'affogarmi in mar morte non era a tuo senno crudel, pur ch'io ti sazi, non recuso che mandi alcuna fera che mi divori, e non mi tenga in strazi. D'ogni martir che sia, pur ch'io ne pera, esser non può ch'assai non ti ringrazi. Così dicea la donna con gran pianto, quando le apparve l'eremita accanto.
Amore un tempo in così lento foco arse mia vita, e sì colmo di doglia struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia martir, fora ver lei dolcezza e gioco. Poscia sdegno e pietate a poco a poco spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia libera da sì lunga e fera voglia, giva lieta cantando in ciascun loco.
OTTAV. Tu piangi?... Me dall'infamia e dai martír, deh! salva: da morte, il vedi, ogni sperarlo è vano. Salvami, deh! pietade il vuole... SENECA E quando... io pur volessi,... in sí brev'ora,... or... come?... Meco un ferro non ho; giunge a momenti Nerone... OTTAV. Hai teco il velen sempre: usbergo solo dei giusti in queste infami soglie. SENECA Io,... con me?...
Cotanto appena il rio demon favella, Che s'involve di nebbia atra e profonda, Ma lascia l'oro avvelenato; ed ella Ponselo a bocca, e tutto il cor n'inonda; Nè fra tanti martir punto men bella, Stassi del caro letto in su la sponda; Ivi del suo signor la destra prende Con la sua destra, e l'ultim'ora attende.
Irta le chiome, pallida, gelata Palpitando riman tra viva e morta; Sovra aureo letto di sudor bagnata Stuol di vergini serve indi la porta; Ma per lei da martir tanto agitata Il feroce Ottoman si disconforta E si contrista sì, che non ha posa Ne le gran fiamme sue l'alma amorosa.
Se il cor mi si turba In me rivolgendo Che i giorni tuoi santi S'estinser, gemendo; Che giovin peristi In lungo patir; Io scerno che il pianto Mi tergi e sorridi! Io scerno che al cielo Ne inviti, ne guidi! Io t'odo che appelli Felice il martìr! Ell'era di quelle Serafiche menti, Vissute nel mondo Sublimi, innocenti, Amando, pregando, Chiamando a virtù.
Per Ottoman scioglie ai lamenti il freno Sultana, e beve poi letal veneno. Così la vince il gran martir; ma volse A lo scampo de' suoi Bostange il core Sul risco estremo, ed i guerrieri accolse Che nel campo godean grado d'onore; Guardogli alquanto; indi la lingua sciolse, Nel profondo del cor chiuse il dolore, Ed a' mesti baron chiedea consiglio Con salda voce nel sovran periglio: II
Volea seguir; ma ne l'eburneo petto Prese novo vigor l'alma smarrita; Onde la donna a l'amator diletto Porge conforto, ed a sperar l'invita: Tempra il timor; non conturbar l'aspetto; È lieve a sofferir questa ferita; Sol fa ch'io gema, e che martir ne senta Veder, che 'l vostro cor tanto tormenta. Mentre così dicea, fosco diviene L'ostro amoroso in su la guancia smorta.
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