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Aggiornato: 9 giugno 2025


Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in vano. Fresca sta chi crede, in vecchiezza, ristorarla. Quando troverrò io uno amante cosí fatto? quando arò io tempo andarlo a trovare, come al presente, che egli è in casa e che il mio marito è di fuora? chi mel vieta? chi mi tiene?

MANGONE. Dico il vero, a di uomo da bene. FILIGENIO. Giuri la di un altro, non la tua, ché tu non sei uomo da bene. MANGONE. Quanti giurano a di gentiluomo, che non ci sono? Ma se non lo credete, potrete venir infin a casa e vederlo: dopo pranso ne arò la casa piena e potrete eleggerlovi come vi piace. FILIGENIO. Che ho a far io, ché ti ricordassi di me?

Ella non pensò mai che fosse ingiusto per l’altrui pane coltivar la spica, con tristezza, con fame e con fatica guadagnando la vita a frusto a frusto: arò la terra e dondolò la culla, senza riposo e senza gioia.

Ho lasciato detto che desiava parlargli, e insegnatali la casa mia. Ma io vi tornerò, come arò fatta stima che abbia desinato. FILIGENIO. O Mangone, o Mangone! MANGONE. Chi mi chiama? FILIGENIO. Chi t'apporta guadagno: vòlgeti. MANGONE. Non è cosa al mondo a cui mi volga piú volentieri. Ditemi, che guadagno mi apportate?

FESSENIO. To' ! Architetto, ah? CALANDRO. Due anelli mi bevve quella spagnuola. Or io fo ben voto a Dio che io m'arò ben l'occhio di non esser beuto. FESSENIO. E tu savio. CALANDRO. Nissuna mi bacerá giá mai che lei non baci. FESSENIO. Calandro, abbivi avvertenza; perché, se una ti bevesse il naso, una gota o un occhio, tu resteresti il piú brutto omo del mondo. CALANDRO. Ci arò ben cura.

PIRINO. Io son tanto atterrito dalle fortune passate e dalla disperazione delle presenti, che non oso sperar nelle cose avvenire. La nostra rappresentazione ha mutato faccia: rappresentiamo una favola contraria a quella di prima! Mio padre, in sentir questo, cacciará subito Melitea di casa, e io non arò piú animo di comparirgli dinanzi. FORCA. Ed a me bisogna far voto a san Mazzeo per la schena.

Or, scoprendosi che la vostra Cleria è figlia vera di Filogono, sará forzato questo furfante darle diecimila ducati di dote: e cosí io li vengo a far questo danno e le mie vendette. PARDO. Ma che certezza arò io, che la vostra Sulpizia sia la mia vera Cleria?

ATTILIO. Madre, ciò facendo vi arò piú obligo che della vita che donato mi avete, quando mi partoriste; ché, amando costei piú dell'istessa vita, donandomi costei, mi donate la vera vita. TRINCA. Ma bisogna, padrona, quando v'incontrate, usar quelle accoglienze come si fosse la propria Cleria vostra figlia; e dimandandovi di alcune cose, le sappiate rispondere e, di quelle che non sapete, tacere.

Il duca, tremante, balbettante, le corse dietro: "Stella!... Stella!... Regina!" ma sentendo i passoni gravi dello zio Matteo, si avvicinò subito al pianoforte, esclamando, colla voce stonata per l'orgasmo, per l'eccitazione: "Oh, l'Ideale! Ca.... aro ideal!... Proviamo un pochetto d'ideale!" Dopo il caffè, figliuoli miei! Dopo il caffè!

LECCARDO. Giá si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de' suoi nemici. Non arò contento se non gli fo qualche burla.

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