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Che sia strutto Amore e chi lo fe', chi 'l pruova e chi gli crede! Io mai nol vidi. TIMARO. È Siro che ragiona. Lasciamili accostar. So che camina! O Siro, aspetta. SIRO. Che vai tu cercando, Timaro? TIMARO. Sono uscito de la strada per venirti dietro, ché sentiva bastemmiar non so che.

Rimenatel pur qua. FILENO. La lepre è giunta. E che volevi far cosí a fuggire? Sta' pur, ch'io t'ho. CRISAULO. Va'; corri al capitano, Timaro, da mia parte; e fa' che mandi qui dieci sbirri, ché li voglio dare uno assassino. PILASTRINO. Oimè! Misericordia! CRISAULO. Usarla in te sarebbe cosa iniqua: ché sei un ladrone e non vuoi ravederti. Sarai pagato adesso. PILASTRINO. Odi, Fileno?

Crisaulo... PILASTRINO. Io non vi sono. TIMARO. ... ora t'aspetta a far colazion seco e ti vorria parlar. PILASTRINO. , : è Timaro. Non t'aveva pur anco cognosciuto. Eccomi a te. TIMARO. Credo che, questa volta, ti parrá forse amara. PILASTRINO. Andiam pur via. TIMARO. Che cosa è di te tanto? Non possiamo giá piú vederti.

E giá mille altri han lasciato l'impresa, sol per esser la madre quel ch'ella è. Potria forse anco star; ché non è 'l primo miracol ch'abbia fatto, a' miei , l'oro. Ma non voglio che mai per mezzo mio faccia tal roffiania. TIMARO. Farei ancor peggio, per il padron, pur ch'ei mel comandasse. Che ne puoi perder tu? SIRO. Quello c'ho al mondo, servendo un fuor di senno e disperato. Ma ascolta.

PILASTRINO. Di tanto, forse, che non hai nessuna che porga tanto a te. TIMARO. Gli è ragionevole che i belli sempre si faccin pagare. L'ordine è questo. PILASTRINO. Ma per te si guasta; ché sei bello e non v'è forse alcuna che ti voglia pagar! TIMARO. Bel non son io. PILASTRINO. Almanco tu ti tieni.

TIMARO. Io non mi curo. Sia come vuol. Non ho di questi impacci; non penso tanto inanzi e mi contento di questa vita: ben mangiare e bere e gire a spasso, portato c'ho , talor, come acqua e legne e governato ben la mia stalla e spazzato la casa e netto gli usuvigli di cucina, le secchie e i caldaroni e, alcuna volta, supplito anche ai bisogni de le fanti che non mi lascian viver.

E sento spesso tante pene che mi stempero tutto; e, in quel, talora vado al luogo comune. E degli affanni non ti dico; perché ne porto addosso quanto un somaro, di quegli degli altri. Pensa de' miei! TIMARO. Anche ti venga il grosso! Non puoi giá uscir di quello. PILASTRINO. Tu non credi, che abbi una innamorata?

SIRO. , ch'io bastemmio qualche volta me stesso; ché non posso omai durar con questo insopportabile, quasi ho detto, poltron. TIMARO. Che c'è di nuovo? SIRO. Ultimamente non m'ha minacciato di fare e dire, s'io non truovo modo ch'esca di questi affanni? TIMARO. O dágli il modo. SIRO. E come? TIMARO. Che s'appicchi per la gola! SIRO. Or non ho punto voglia di scherzare.

PILASTRINO. Queste ghiottoncelle m'han cavato 'l cervel de la memoria in modo ch'io non posso piú, senz'esse, vivere un'ora. TIMARO. E che! Sei innamorato? Di' il vero. PILASTRINO. Se sapessi come m'hanno concio! Non posso piú mangiare o bere, quand'io dormo; o dormir chiuder occhi, mentre ch'io beo, se prima non è vòto il fiasco.

Non mi batter piú la porta. Debbi essere ubbriaco. TIMARO. Apri qui, fiera! Ti taglierò un'orecchia. PILASTRINO. Questa volta, voglio che tenga di mula di medico cosí come sei bravo. TIMARO. Quello è desso; è Pilastrin. Parti che ha scelto l'ora di andare al letto? Mi bisogna averlo con le buone. Odi, o Pilastrin: ti prego; fatti fuori. PILASTRINO. Tu m'hai rotto la testa. TIMARO. Ascoltami.