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SIRO. , t'ho inteso. Tu la discorri bene. SIRO. A posta tua. Questi stan ben con queste simil gente che sopportan com'asini venduti; o ver gli adulatori. Io sarei sempre schiavo. Crisaulo batte il servitore e biasma forte con Pilastrino l'avarizia; e, incominciandosi a doler d'Amore, Pilastrino lo lascia. CRISAULO nobile, FILENO, TIMARO servi, PILASTRINO. CRISAULO. Basta. Ho inteso.

Canaglie! ché non passa per la strada civette o olocchi o per l'aere augelli che non voglin vederli. TIMARO. È pure stato il maestro che m'ha fatto indugiare questo poco: ché non voleva darmi quegli avanzi del drappo e stava a dire che non è usanza e che none sta bene a un vostro pari; e quasi bastemmiava. Son ladri: sempre voglion sopra i pregi di quel d'altrui. CRISAULO. Ah vigliacco, poltrone!

ARTEMONA roffiana, TIMARO, CRISAULO. ARTEMONA. Ta, ta. Saran tutti a letto. Piace anche a me 'l dormir. TIMARO. Chi batte giú? ARTEMONA. Amici. Apri: son io. TIMARO. Pare una donna. E chi sei tu che vai cosí a quest'ora? Oh brutta vecchia! Se non par la strega che vadi in corso! ARTEMONA. Dimmi: ove è Crisaulo? TIMARO. E che buona faccenda? qualche polli, cosí a buon'ora?

Poi ne vidi un altro d'un'altra fatta, che v'era ammarcito un mondo d'uova e colombi favacci e teste di castroni e pilpistrelli e piú grassi e biturri e piú pastocchi che qualche volta. CRISAULO. ! Fornisse, un tratto. Fa' che si ceni. Che ora può essere? FILENO. È passato di poco un'or di notte. Entriamo in casa.

Ma parti che ci torni? FILENO. Eccol, per Dio. Contava i passi; or corre. CRISAULO. Io son disposto... A che sei stato tanto, manigoldo? Ho voglia di... TIMARO. Signore, ho corso sempre. Questo è 'l resto di tutto il fornimento, d'infuor la sella che non è fornita. S'avrá stasera. CRISAULO. Hai piú tu di bisogno del baston che non ha di te la stalla.

Artemona, parlando con Lúcia, fa destramente offizio per Crisaulo: e, parlando poi con la madre, le intenzione che Crisaulo la sposerá. ARTEMONA. Oh! Non pensare: ché lo vidi a la prima che tu eri d'altro adirata. E però feci poca stima de le parole, ché altrimenti non ci sarei tornata: ché, dove uso, son troppo avezza ad esser ben veduta e accarezzata.

Questi sono gli onor? Vo' che tu impari per l'altre volte. TIMARO. Oimei, padron! Son morto. CRISAULO. Ti vo' spezzar quella testa balorda. Chi te l'avea commesso? TIMARO. Oh gramo a me! CRISAULO. S'io vi ritorno... TIMARO. Oimei, che ho rotto gli ossi! Morrò in duo . PILASTRINO. Oh! co! Non piú, Crisaulo. Oh! co! Crepo di rise.

PILASTRINO. Ben ti venga, poi c'hai per me mandato perché merendi teco. CRISAULO. Ascolta, prima, quello che t'ho da dir: poi, se vorrai, potrai mangiare. PILASTRINO. Oh! Se bevessi prima, t'ascolterei pur troppo volentieri e con pazienza. CRISAULO. Orsú! Non mel far dire duo volte o tre. PILASTRINO. Di' presto quel che vuoi.

E pur è con effetto: e in modo tal che superba e grande forse non fu mai Troia, Atene o Roma. Qui sta Crisaulo nobile; e qui Lúcia; qua Girifalco; e di Pilastrino. Eccol che viene in qua. Se sta in cervello, potrete intender da lui meglio il tutto. Siate sempre felici. PILASTRINO parasito. Buona vita, insieme con la pace di Marcone, caso che vi fermiate con silenzio.

Hai pur questo tuo pecco, come le donne, di voler morire d'ogni picciola cosa e avere in cima, come lo sputo, il pianto. Se non fosse ch'io troppo t'amo e del tuo mal m'incresce, in fine al cuore avrei or con fatica ritenuto le risa. È pur vergogna tanta viltá. CRISAULO. Dico che n'ho per sette de' buon consigli. Ma questo non basta: ché bisogna pazienza; di che i santi mancan talora.