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Aggiornato: 29 giugno 2025
TRINCA. Sète di quei padri che prima muoiono, che maritano i figli, per non contentarsi mai. PARDO. Or ho deliberato dar Sulpizia per moglie ad Attilio, e vo' che mi ubedisca, cosí per l'obligo che mi tiene di figlio, come per l'onestá della dimanda, e come per l'amor che mi porta: ché l'amor e l'ubedienza son sorelle carnali. TRINCA. V'è tenuto per obligo, e farallo per cortesia e per amore.
Ecco perché Erotico mi scacciava da sé: e che trattava cosa buona per lei, e che molto l'importava. Misera Sulpizia! come restarai, poveretta, rinchiusa in una camera, mentre durerá la tua vita, a pianger la colpa della tua sciocchezza, d'aver creduto ad un uomo, con freggio d'infamia da non risanarsi piú mai. E come duo occhi suoi soli potranno piangere tanta sciagura?
Andiamo a casa mia o nella vostra, a far il cambio. ORGIO. Eccomi pronto a quanto volete. PARDO. Venete a casa mia, che mangiaremo insieme, e poi ragionaremo de fatti nostri. ORGIO. Non posso, ho che fare, ci vengo con l'animo. PARDO. Vo' che ci vengáti in persona; e per la porta di dietro mandaremo a chiamar Sulpizia vostra, ch'io spasimo di vederla: e vi prego, concedetemi questa grazia.
SULPIZIA. Veramente è come dite; e stimo che li medesimi travagli, che travagliano voi, travagliano ancor me: che ambedue ne affligga un medesimo male. ARTEMISIA. Misera me, che dispiacere feci a mio padre mai, che meriti che mi dia quel vecchio cadavero e putrefatto di vostro padre per marito? questo è il premio della ubidienza che li ho portata tanti anni?
Vignarolo, di' a Sulpizia che cali giú li addobbamenti di damasco con quelle trine d'oro e tutti gli argenti miei, e che sgombri la camera e l'adorni tutta; e torna volando. VIGNAROLO. Cosí farò. PANDOLFO. O felice me, o benedetto astrologo! eccomi giunto a quanto mai ho desiderato: posseder Artemisia per isposa. Cancaro! se ci dovesse andar la vita.
GULONE. A tuo dispetto, or vo ad un banchetto in casa d'un amico. Io vi saluterei, signora, se non facessi il contrario, perché ogni salute e ben ch'io spero, non può venirmi altronde, se non da lei. Ma faccivi Idio cosí lieta e contenta, come v'ha fatto la piú bella e graziosa dell'universo. SULPIZIA. Rendati Idio cosí infelice e disgraziato, come tu hai me reso infelice e disgraziata.
EROTICO. Oimè, che è quel che sento? sète voi dessa, over io son un altro? e che parole son quelle che odo? SULPIZIA. Quelle che mi detta il dolore, partorite da giusto sdegno, e quelle di che la tua infedeltá me ne dá cagione. EROTICO. E da quella bocca di perle e di oro posson uscir parole tanto odiose? Di grazia, se lo fate da scherzo, non le dite da vero.
Però voglio che prestino il libero consenso a questa mia sentenza e mi dia ciascuno di voi auttoritá in particolare di poter determinarlo; ché altrimente non son per dire parola in questo fatto. EUGENIO. Io per me, signor Guglielmo, vi delibero potestá di determinare di questi matrimoni come vi piace, e starò pazientissimo ad ogni sua sentenza comunque si sia; e cosí afferma Sulpizia mia sorella.
VIGNAROLO. Goffo! perché mi salvai nuotando. VIGNAROLO. Ed io avea promesso Artemisia a Pandolfo per moglie, ed egli a me Sulpizia sua figlia.
SULPIZIA. Or che lo sdegno m'ha tolto quel velo dagli occhi, che cieca mi rendeva, e conosciuti i tuoi tradimenti, ti vo' fare ammazzare, e poi ammazzarmi io ancora; e mi consolarò nella mia morte con la tua morte.
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