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Aggiornato: 7 giugno 2025


Ver è ch’altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l’ombre a’ corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro, e ’l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.

Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n’uscivan duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi. E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell’ arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». E quelli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d’ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche.

Quando s’accorse d’alcuna dimora ch’io facëa dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta restato m’era, non mutò aspetto, mosse collo, piegò sua costa; e continüando al primo detto, «S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.

Quell’ anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode.

vid’ io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco; mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale». Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina, ch’è guardata da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.

E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa, perché, pensando, consumai la ’mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta. «S’i’ ho ben la parola tua intesa», rispuose del magnanimo quell’ ombra, «l’anima tua è da viltade offesa;

Inferno · Canto VIII Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».

Rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte, ch’ogne vista sen più serena. «O santo padre, che per me comporte l’esser qua giù, lasciando il dolce loco nel qual tu siedi per etterna sorte, qual è quell’ angel che con tanto gioco guarda ne li occhi la nostra regina, innamorato che par di foco?».

Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell’ ombra che mi fu cagione per che gi

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. Quand’ io intesi quell’ anime offense, china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

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