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«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l’un, «mi mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:

«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l’un, «mi mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:

Stanco, livido, assente, nel flosciore delle labbra, allentate in smorfia informe. Spento il baglior dell’attimo che illude l’anima di sfuggire al suo sgomento d’esser sola, tornar, cieco, il tormento io vidi, a gogna delle membra ignude. Ed era chiuso senza perdonanza l’un volto all’altro: e torbido, ed avverso: l’uomo non ha che nell’universo, sol per piet

«Or a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi, di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria leve». Poi che l’un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.

Quando Giuliano prese in mano le redini dell’impero, egli trovava il Paganesimo perseguitato ed oppresso, ed il Cristianesimo profondamente diviso in due partiti che si combattevano l’un l’altro, con crescente ferocia. Noi vedemmo come il tentativo di Costantino di fare della Chiesa unificata e concorde uno strumento d’impero avesse trovato, nella inconciliabilit

Ond’ io: «Maestro, , qual cosa greve levata s’è da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?». Rispuose: «Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com’ è l’un, del tutto rasi, fier li tuoi piè dal buon voler vinti, che non pur non fatica sentiranno, ma fia diletto loro esser pinti».

Vòlt’ era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’ el parlò de la rana e del topo; ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa. E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi doppia.

Come ’l ramarro sotto la gran fersa dei canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.

«Ricordivi», dicea, «d’i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Tesëo combatter co’ doppi petti; e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver’ Madïan discese i colli». accostati a l’un d’i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite gi

e l’un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro». Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón cost