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Aggiornato: 5 giugno 2025
Luce di mia vita, che al cor lasso di sí dolci pensieri fosti esca un tempo, altro or da me non vuoi che pianto e morte. È venuto omai l'ora. La ti do volentieri. FILENO. Aimè, padrone! CRISAULO. Io passo. Potrai dirle tu con vero ch'io son morto per lei. FILENO. Timaro, corri; porta aceto rosato e malvagía e confessioni. Aimè! ch'io tremo tutto, ché 'l padron si vien meno.
Sta a sentire, padron mio, disse lo sceicco riaccendendo il suo seibouk. Questa sera mando uno dei miei uomini alla tenda del tuo rivale, anzi ci andrò io in persona, e lo avviso che la sua amante lo desidera. L'innamorato, che m'immagino sar
PANFAGO. Io mi starò cosí chiuso nella cappa che costui non mi riconosca. MANGONE. Padron caro, che furia è questa? Melitea sta a vostra posta; e se la volete cosí inferma come ella è, ve la darò or ora. DOTTORE. Dove è ella? MANGONE. Chiavata in camera strettamente. DOTTORE. Dici il vero; ma non in camera tua e da altri. MANGONE. Dubitate forse che Pirino e Forca non me l'abbino tolta?
Però mi reduco genuflexo a deprecarvene. PANURGO. Padron mio caro, non saprei che fare per rimediarci. NARTICOFORO. Geraste carissime, se forse accipiendo informazione di me o del mio figliuolo, avete inteso qualche cosa che vi spiace perché si trovano genti che multa dicunt, o forse la dote è troppa o la mia supellettile è poca, ditelo alla libera, ché potremo rimediare al tutto.
CAPITANO. O che tu sei infernetichito o devi star ubbriaco, poiché cerchi da un uomo che mai vedesti, che ti restituisca la tua robba. MANGONE. Io non ho visto te, ma sí ben il tuo fattore che, vendutomi un schiavo in tuo nome, m'ha rubbata la schiava mia. CAPITANO. Io non ho fattori, ma disfattori sí bene; e il fattore servo e mastro di casa e padron della nave son io stesso.
Il padron giovane or m'inviava a Salerno per avvisarvi che voleva venir colá; ma poiché si viene questa sera in Napoli per alloggiare col tedesco nel Cerriglio, noi accomodaremo la nostra casa in foggia di taberna, ed io sarò il tedesco ché per esser io stato per molti paesi, so alquanto di quei paesi.
NEPITA. Poiché siam venute su questo, vo' che il dica: se non, che ci daremo infino a tanto delle pugna che ne sputiamo i denti. ESSANDRO. Ti duoli di me che t'abbi tolto il padron vecchio Gerasto, che prima era tuo innamorato. NEPITA. Oh, lo dicesti pure! ESSANDRO. Ma se tu sapessi la cosa come va, non mi porteresti tanto odio, non aresti gelosia di me e m'amaresti come amo io te.
Anche il cielo si tinge di rosso Gridò il solito compagno, provocando un'occhiataccia dal padron di bottega, il quale dacché aveva raggruzzolato la miseria di un mezzo milione si era buttato, anima e corpo, nella categoria dei ben pensanti Allegri ragazzi Continuò collo stesso tuono di voce lo scapato Gli augurii, non potrebbero essere migliori... Evviva il rosso!
FILIGENIO. Che «signor sí», «signor no» cerchi in nasconder la veritá? ed è tanta la sua forza che a tuo dispetto ti muove la lingua a dirla. FORCA. Eh, padron mio. FILIGENIO. Che padrone? mi fai del balordo; che balbezzare è il tuo? FORCA. Io non so nulla; ma...
PANURGO. Haigli tu rotta la testa, come t'ho detto, in farmi aspettar tutta questa mattina? MORFEO. Signor no, perché mi disse avervele inviate, e datomi tante buone ragioni che mi parve degno di scusa. PANURGO. Io la vo' adesso rompere a te che non fai quello che ti comando. MORFEO. Eh, padron, per amor di Dio, quel che non è fatto, pur siamo a tempo di farlo: ci andrò adesso.
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