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E poichè siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel volto e nei modi, benchè studiosissimi tutti di non lasciarlo parere; leggono e declamano le opere loro, facendo gli uni a soverchiar la voce degli altri, a fine di farsi sentire dal popolo accalcato nelle tribune; il quale, dal canto suo, bada a legger le gazzette e a disputar di politica. A quando a quando una voce vibrata e armoniosa vince il tumulto; e allora cento voci, prorompono insieme in un canto della sala, gridando: È un carlista! e una salva di fischi tien dietro alle grida; oppure: È un repubblicano! e un'altra salva di fischi, da un'altra parte, soffoca la voce vibrata e armoniosa. Gli accademici si tirano dei giornali rappallottolati, si urlan l'un l'altro nell'orecchio: Ateo! Gesuita! Demagogo! Neo-cattolico! Banderuola! Traditore! A tender ben l'orecchio verso quei che leggono, si colgono strofe armoniose, periodi ben torniti, frasi potenti; il primo effetto è gradevole; son davvero poesie e prose piene di calore, di vita, di sprazzi di luce, di felici comparazioni tolte da tutto quello che splende e che suona nel cielo e sul mare e sulla terra; e ogni cosa vagamente lumeggiato di colori orientali e riccamente vestito di armonie italiane. Ma ahimè! non è che letteratura per gli occhi e per gli orecchi; non è che musica e pittura; raramente la musa, in mezzo a un nembo di fiori, lascia cadere la gemma d'un pensiero; e di codesta pioggia luminosa non rimane che un leggiero profumo nell'aria, e l'eco d'un lieve mormorio nell'orecchio. Intanto, s'odon nella strada grida di popolo, colpi di fucili e suon di tamburi; a ogni tratto, qualche artista diserta l'arringo, e va a sventolare una bandiera tra la folla; spariscono a due, a tre, a frotte, e vanno a ingrossare il drappello dei gazzettieri; lo strepito e la vicenda continua degli avvenimenti, distolgono i più tenaci dalle opere di lunga lena; invano qualche solitario nella folla grida: In nome del Cervantes, fermate! Alcune voci potenti si sollevano al di sopra di quel gridìo; ma son voci d'uomini raggruppati in disparte, molti dei quali in procinto di partire per un viaggio senza ritorno. È la voce dell'Hatzembuch, il principe del dramma; è la voce del Breton de los Herreros, il principe della commedia; è la voce dello Zorrilla, il principe della poesia; è un orientalista che si chiama Gayango, un archeologo che si chiama Guerra, un commediografo che si chiama Tamayo, un novelliere che si chiama Fernand Caballero, un critico che si chiama Amador de Los Rios, un romanziere che si chiama Fernandez y Gonzalez, e una schiera d'altri ingegni arditi e fecondi; in mezzo ai quali è ancora viva la memoria del gran poeta della rivoluzione, Quintana; del Byron della Spagna, Espronceda; d'un Nicasio Gallego, d'un Martinez della Rosa, d'un duca di Rivas. Ma il tumulto, il disordine e la discordia invadono ed avvolgono, come un torrente, ogni cosa. E per uscir di allegoria, la letteratura spagnuola si trova in quasi eguali condizioni della nostra: una schiera di illustri che declinano; ma che ebbero due grandi ispirazioni: o la religione o la patria, o entrambe; e che però lasciarono un'orma propria e durevole nel campo dell'arte; e una schiera di giovani che vengono innanzi a tentoni, domandando che cosa hanno da fare, piuttosto che facendo davvero; ondeggianti tra la fede e il dubbio, o aventi la fede senza il coraggio, o non avendola, indotti dall'uso a simularla; malsicuri anch' essi della propria lingua, e titubanti fra le Accademie che gridano: Purezza! e il popolo che grida: Verit

E mi sonavano in mente i dolci versi di Martinez della Rosa: «Oh amata patria mia! Ti riveggo al fine! Riveggo il tuo bel suolo, i tuoi campi lieti e fecondi, il tuo splendido sole, il tuo quieto cielo!

È fama che Pio IX tra il , e il no tenzonasse di partire o rimanere, ma che a traboccare per la risoluzione di andarsene contribuissero assai la lettera, e il dono della pisside, o meglio della teca dove un Chatorusse vescovo di Valenza gli dette ad intendere Pio VI portasse il viatico nelle sue pellegrinazioni; invero a che pro cotesto impaccio se il Papa con due parole e un po' di farina poteva farsi quanto Dio voleva? e la farina da per tutto si trova. Avendogli pertanto mandato Dio la ispirazione per mezzo del vescovo di Valenza, mentre gliela poteva spedire per via diretta deliberò la fuga: in questo passo forte lo stimolava il duca di Harcourt il quale intendeva condurlo a Civitavecchia e quindi in Francia, arnese ottimo, secondo lui, per iscompigliare la Europa pigliando a volo i diritti, o piuttosto le pretensioni dei Papi sul bene altrui. Gli oratori degli altri principi cattolici ben si accordavano coll'Harcourt intorno alla fuga ma dissentivano circa l'asilo, il Martinez della Rosa lo voleva trasportare alle Baleari, il conte Spaur a Gaeta donde con maturit