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Lo sapevo, rispose in modo urbano ma secco, mentre cercava ancora un sotterfugio per evitare la mossa, senza darsene precisamente ragione; ma i pezzi toccati erano due, bisognava giuocarli tutti e due: il codice del giuoco parlava chiaro; non era possibile altro passo che l'arroccamento. Anderssen si arroccò alla calabrista, come dice il gergo della scienza, cioè pose il re nella casa del cavallo e la torre nella casa dell'alfiere. Poi piantò gli occhi nel volto del nemico. Il negro, fatta che vide la mossa tanto sperata e tanto attesa, tornò a fissare più intensamente che mai l'alfiere segnato, ed acceso dalla emozione e dalla sua natura tropicale, non si curava anche di temperare gli slanci della sua fisionomia. Correva su e giù coll'occhio dall'alfier nero al re bianco, facendo e rifacendo venti volte la stessa via quasi volesse tirare un solco sulla scacchiera. Anderssen vide quelle occhiate, le seguì, notò l'alfiere, indovinò tutto; ma sulla sua faccia non apparve un indizio solo di quella scoperta. Del resto Tom non guardava mai l'Americano; era sempre più invaso dall'idea fissa che lo dominava, Tom in quella stanza non vedeva che una scacchiera, in quella scacchiera non vedeva che uno scacco: fuor di quel piccolo quadrato nero e di quella figura d'ebano, nessuno e nulla esisteva per esso. Coi pugni serrati s'aggrappava agli ispidi capelli, sostenendosi così la testa, appoggiato coi gomiti alla sponda del tavolo; la pelle delle sue tempia, stiracchiata dalla pressione che facevangli i polsi delle due braccia, gli rialzava l'epiderme della fronte; le palpebre, in quel modo stranamente allungate all'insù, mostravano scoperto in gran parte il globo opaco e bianchissimo de' suoi occhi. In questo atteggiamento stette maturando il suo colpo per ben quaranta minuti, immoto, avido, trionfante; poscia attaccò; prese una pedina all'avversario e gli offese un cavallo. L'Americano aveva previsto il colpo. Il fuoco era incominciato. A quella prima scarica rispose un'altra dell'Americano, il quale prese la pedina nera ed offese la torre; cinque, sei mosse si seguirono rapidissime, accanite. La vera lotta principiava allora. A destra, a sinistra della scacchiera vedevansi gi

Questo era l'aspetto della partita veduta dal lato dell'Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l'aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell'ordine sviluppato dall'apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell'equilibrio dell'offesa e della difesa, questi aumentava ad ogni passo il proprio squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa, diventava esso pure, in faccia allo schieramento dei bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile del bianco s'avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell'altro; non mancava un solo pezzo una sola pedina, e codesta riserva d'ambe le parti era feroce. L'Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua natural tattica di schiavo, tutta l'astuzia dell'etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine era fatto ad arte per nascondere l'agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico, i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L'alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell'alfiere. Era appunto l'alfiere ch'era stato rotto ed aggiustato dall'Americano; un filo sanguigno di ceralacca gli rigava la fronte e calando giù per la guancia, gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi; pareva un guerriero ferito che s'ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po' verso il petto con tragico abbattimento; pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sott'occhi l'avversario e aspettasse stoicamente l'offesa o la meditasse misteriosamente. Nel cervello di Tom quello era il pezzo segnato della partita; egli vedeva colla sua immaginosa ed acuta fantasia diramarsi sotto i piedi dell'alfier nero due fili, i quali, sprofondandosi nel legno del diagramma e passando sotto a tutti gli ostacoli nemici, andavano a finire come due raggi di mina ai due angoli opposti del campo bianco. Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l'arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito; ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa. Tom solo vedeva e sapeva la sua occulta cospirazione e nessun giuocatore al mondo avrebbe potuto indovinarla. Al vasto ed armonico concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea fissa: l'alfiere segnato; alla ubiquit