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Aggiornato: 31 maggio 2025


Viva l'imperator! disse il canuto Veterano: e baciò stretta nel pugno La mercede che a lor frutta la gloria. Essa diceva il suo dolor. La voce Scaturiva dal cor come un gorgoglio D'acque interrotte, che fan specchio al piede D'una pallida Niobe di marmo.

Non rimaneva che la frutta, e questa era rappresentata da grossi mandarini dalla buccia ben sciolta.

Felicino Magnasco entrò coll'aria più impacciata che vi possiate immaginare, e ne aveva ben donde. Roberto Fenoglio non lo era meno di lui. Oh, buon giorno, Felicino! esclamò egli, senza sapere che cosa si dicesse. Che buon vento ti porta quassù? Come va la salute? Bene, grazie; e la tua? Optime, Felicino, optime; e che cosa mi frutta una tua visita così mattiniera? Ah !... rispose l'altro.

Non si parlò di Barigini se non per incidenza. Ha piluccato anche a me trecento lire disse Manardi ridendo; e poi soggiunse: Ma non incrudeliamo con un morto. Quando si fu alle frutta, la vecchia moglie del fattore di Villa Raverio domandò di parlare al sor Baldassare.

Pareva quasi che Lalla non fosse alla vigilia di maritarsi, ma che all'indomani dovesse pronunziare un voto monastico: vestiva sempre di nero, nascondendosi la faccia con un velo fittissimo, restando molte ore in chiesa, o ginocchioni a pregare, o seduta a leggere l'uffiziolo, non mangiando altro che legumi; senza frutta, senza dolci.

Coloro che avevano assaggiata il giorno innanzi la sbroscia dei marinai e provato il dente nel loro biscotto, portavano in iscambio le loro provvigioni di frutta e di pane. Avevano infatti una specie di pane, detto cassava, tratto dalle radici di una jucca, coltivata a bella posta nei campi, come da noi il frumento.

La luce del lanternino, che riempiva la cupola dell'ombrellone, sbatteva vermiglia sulla faccia e sulle mani e mandava l'ombra nera di due gambette sull'arena lucida del viale tutto chiazzato di fossatelle di acqua: e un'ombra più larga e spampanata passava sotto gli alberi di frutta come quella d'un immenso fungo proiettato da una gigantesca lanterna magica.

Discinta la spada, mi beatificai con un catino d'acqua fresca, adocchiando contemporaneamente nella propinqua sala la mensa festante di diverse frutta che parevano colte nel paradiso terrestre, onde tardavami d'irrorare la gola arsa dal caldo e dalla sete, allorchè un paesano salendo le scale a salti con voce trarotta ci avvertì che un picchetto di lancieri borbonici spesseggiava, per riunirsi alla brigata.

Ci si chiuse nel camerotto riservato alle donne, il quale, secondo l'espressione dell'Eula, era «il meno peggio». Avevamo fame ma non aspettammo molto. Tre quarti d'ora dopo si spalancava l'uscio ed entravano roast-beef, un fiasco di vino, del formaggio, della frutta e delle sigarette. Mangiando si chiacchierava e si rideva.

Solo alle frutta, quando don Vincenzo, dopo d'essersi lasciato scappare il primo rutto, la fissò con una tenerezza da ciuschero, facendole scorrere la tabacchiera di sotto alla salvietta, miss Dill, rabbonita, gli sorrise clemente, sentendosi tutta rinvenire, come un gambo d'insalata dopo un'acquazzone d'estate.

Parola Del Giorno

dell’esule

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