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NEPITA. Parla presto, non mi far stare piú sospesa, non mi far consumare. ESSANDRO. Prestami l'orecchia. NEPITA. Eccole tutt'e due, te siano donate. ESSANDRO. Tu pensi ch'io sia femina, e io son maschio. NEPITA. E può esser questo vero? ESSANDRO. Come ascolti, e si può toccar la veritá con la mano. NEPITA. Come non m'hai fatto prima toccar con la mano questa veritá?

SANTINA. Chi t'ha imparato cosí bella ricetta? n'hai ancor fatta la pruova? SPEZIALE. La prima volta la provai a mia moglie, ed è riuscita miracolosa; poi l'ho insegnata a molti miei amici, e tutti m'han riferito che fa effetto grande. NEPITA. Eccolo, padrona. SPEZIALE. Che diavolo hai meco, vecchiaccia fradicia? che t'ho fatto io che mi batti?

NEPITA. Io non ho gelosia di fatti tuoi. Ma se questo fusse.... ESSANDRO. Se prometti tenermi secreta e aiutarmi, oh quanto sería meglio per te! NEPITA. Che mi vuoi far vedere, che sei vergine? ESSANDRO. Ti scoprirò cosa che non pensasti mai. NEPITA. Piglia da me ogni sicurezza che vuoi. ESSANDRO. Ma avèrti che son cose d'importanza, non da pugne ma da pugnali, e importa l'onor di tua figliana.

Alloquar hominem hic et haec homo: lo uomo e la femina. Femina da bene! NEPITA. Oh, oh, costui mi chiama «femina da bene»: o è un asino o non deve parlar con me. NARTICOFORO. Optime quidem. Deterrima muliercula, idest pessima e cattiva femina. NEPITA. tampoco cosí; ma dimmi «femina men cattiva dell'altre». NARTICOFORO. Tibi Obtemperabo. Femina men cattiva dell'altre, ditemi, state voi qui?

NEPITA. Cavargli gli occhi e troncargli il naso ben potete, ma non por mano ad altro. SANTINA. Non ti par buona vendetta? NEPITA. A me, padrona, no. Io gli renderei pan per focaccia. SANTINA. Taci, ché sei una pazza. Vorrei piú tosto esser stracciata da mille lupi, che esser tócca da un sol uomo che non fusse mio marito.

Prima risponde con i calci che con la lingua: certo deve esser di razza di mulo. NEPITA. Se avessi detto d'asino, . GRANCHIO. ben, di razza d'asino volevo dire. NEPITA. E tu un'altra volta lasciami stare. Ma certo che tu non serai altro che un prosontuoso, poiché arrogantemente parli e prosontuosamente tocchi. GRANCHIO. È cosí gran male il toccare?

NEPITA. Ma, per parlarti alla libera, non posso credere che tu sia maschio. ESSANDRO. Credilo, che è cosí. NEPITA. Giamai credei a parole. ESSANDRO. Dunque, nol credi? NEPITA. No, che voi giovani vi dilettate di dar la baia: però bisogna prima chiarirsene e poi credere. ESSANDRO. Farò che lo vedrai. NEPITA. E questi che fan le bagattelle, pur fan veder molte cose che non sono.

NEPITA. Sventura ti pare ritrovarsi con un giovane bello, di diciotto anni, nel fior degli anni suoi? oh, l'aveste incontrata voi, padrona, questa sventura! SANTINA. Taci, porca, pensi che tutte le donne sieno cattive come sei tu? Frena la tua lingua cattiva. NEPITA. Cattiva lingua vi pare quella che dice il vero?

NARTICOFORO. E si scrive con «ae» diftongo, e vien da «schima» che si scrive con «ita». NEPITA. Voi dovete essere spiritato, che parlate in tanti linguaggi; ma io perdo qui il tempo, ché non avete altro che parole. GRANCHIO. Abbiam fatti per te.

NEPITA. O che l'avesse incontrata io questa sventura, che non l'arei fatto saper a voi a vostra figlia, e me l'arei saputo goder questo tempo. SANTINA. E chi può guardarsi da simil sciagura? entrar un giovane prosontuoso, vestito a donna, in una casa onorata per disonorarla?