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Aggiornato: 27 maggio 2025
A mezzogiorno erano nel reclusorio il prefetto d'Albenga e il sindaco di Finalborgo. Il prefetto parlava loro con grazia. Incominciava i suoi piccoli discorsi così: Poveri sventurati! Ma li terminava dicendo loro che aveva pieni poteri civili e militari. Se non farete silenzio, mi varrò di questi diritti. Fu come una dichiarazione di guerra. Gli occhi dei forzati erano illuminati dalla vendetta.
Andò al suo paese, precipitò sui falsari come una iena e andò a Roma a lavorare fino a quando venne denunciato da un compaesano che lo riconobbe. Lo rividi a Finalborgo invecchiato, con una sentenza a vita. Era stato nei bagni di Civitavecchia e di Orbetello ed aveva lavorato, come compositore di carattere, nella prigione di Regina C
Egli, che si ricordava del vagone cellulare che lo aveva condotto a Finalborgo con degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il giorno della partenza con orrore. Gli rincresceva di lasciarsi chiudere in quella specie di cassa da morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non avrebbe ceduto! Se il Governo voleva disonorarsi, tanto peggio per lui.
I miei compagni di viaggio erano quasi tutti condannati per reati comuni. Nelle celle del vagone mi parevano tante bestie. Parecchi di loro erano usciti dal reclusorio di Finalborgo ed erano sulla strada dei penitenziarii sparsi per l'Italia meridionale.
La direzione ci ha fatto comunicare che potevamo rimandarli a chi ce li aveva spediti o regalarli all'ospedale di Finalborgo. Non potendo mangiarli noi, abbiamo votato per gli ammalati. «Federici, ci tiene in piedi col suo cioccolatte. Non appena ci si porta la pagnotta, egli va da tutti con una tavoletta e li costringe ad accettarla.
Dopo una ventina di minuti, vedevamo sorgere a destra la torre quadrata del malaugurato edificio nel quale dovevamo passare tanto tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla folla, infilammo il viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci trovammo alla porta del reclusorio di Finalborgo.
Ma pochi di noi, rientrati in questa vita vertiginosa, rigodranno la pace delle serate intellettuali del reclusorio di Finalborgo. L'uomo è un animale che rimpiange perfino la galera! Ulisse Cermenati. Non so se sia in lui il giornalismo nuovo. So che è giovine e che il giornalismo lo ha stregato. Anche dopo che la professione gli ha fatto rasentare la porta del reclusorio, non sa staccarsene.
Tra tutti i condannati della quinta camerata preferiva don Davide. Il sacerdote nel camiciotto del recluso gli faceva sanguinare l'anima. Non gli pareva giusto che un uomo di «talento», come diceva lui, fosse in prigione per avere del «talento». Don Davide si soffiava il naso sovente a Finalborgo. Aveva preso un raffreddore che gli era divenuto cronico.
Il primo aveva ricevuto una palla al petto con lesione, pare, al polmone; il secondo era stato colpito allo stinco, e il terzo aveva lo stomaco perforato da due proiettili uno dei quali gli è rimasto nel corpo. Io li ho veduti in infermeria, subito dopo il loro arrivo. Erano giunti a Finalborgo in una condizione da commuovere le pietre.
Uno di questi sventurati di Finalborgo mi descriveva tutta quella massa di ferro, che il codice gli imponeva di trascinarsi dietro fino a sentenza finita, con queste parole: «La maniglia come chiama lui l'anellone era assai diversa da quella che mi vedete ora. Era un grosso cerchio che mi dava un grande fastidio.
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